Short Theatre 2015 |Danio Manfredini, Vocazione

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Ideazione e regia Danio Manfredini
con
Danio Manfredini e Vincenzo Del Prete
assistente alla regia
Vincenzo Del Prete
progetto musicale
Danio Manfredini, Cristina Pavarotti, Massimo Neri
disegno luci
Lucia Manghi, Luigi Biondi
collaborazione ai video
Stefano Muti
sarta
Nuvia Valestri
produzione
La Corte Ospitale
con il sostegno di
Sotto-Controllo, Elsinor Teatro Stabile di Innovazione, Versiliadanza, Collettivo di Ricerca Teatrale – Vittorio Veneto

Short Theatre 2015

3 Settembre, La Pelanda, Roma

Gli anni Novanta, gli anni del disconoscimento dei maestri, della raccolta del fallimento, dell’entusiasmo del boom economico degli Ottanta, dello scandalo di Tangentopoli e dell’ascesa di Forza Italia. Anni in cui in campo teatrale cresce una ribellione muta e dirompente e negli spazi occupati e nei centri sociali autogestiti ecco nascere la Generazione X dei cosiddetti ‘orfani’, nella loro caparbia attività artigianale e di militanza. Non in “pompa magna”, in nero con abiti semplici, personalità come l’attore, cantante e regista cremonese Danio Manfredini attraversano il mondo del teatro di ricerca come stelle di luce bianca, andando alla radice del problema dell’essere in scena: l’etica.

Ed è con il suo spettacolo Vocazione che apre la rassegna Short Theatre con la direzione artistica di Fabrizio Arcuri (Accademia degli Artefatti, altro riferimento della scena teatrale italiana anni Novanta-Duemila) a voler sottolineare che la traiettoria artistica parte da lì, da questi misteriosi anni Novanta, la fucina artistica della scena teatrale indipendente arrivata negli anni Duemila a una sua adozione istituzionale.

La non-eredità degli artisti dell’orphanage è un castello costruito sulla disillusione e sulla solitudine, nella sordità delle istituzioni intente a costruire un impero mediatico di annichilimento delle coscienze. Una ricerca della semplicità nella relazione con il pubblico, una ricerca autentica del racconto del dato esistenziale attraverso altre modalità espressive e creative, fuori dalle accademie, fuori dai circoli borghesi.

Manfredini, ontologicamente pietra miliare del teatro di ricerca italiano, uno dei migliori attori italiani viventi, inizia la propria carriera artistica nel lontano 1975, fondando il Gruppo Teatrale Tupac Amaru al Centro Sociale Isola di Milano. Da lì si susseguono incontri e collaborazioni con altri punti cardine del teatro italiano e internazionale, come il Teatro Valdoca, Pippo Delbono, Cesare Ronconi, per citarne alcuni. Attore, regista, scrittore, macchina attoriale, Manfredini ad oggi, nel 2015 è divenuto maestro, lui che ha sempre rifiutato di seguire una scuola, provenendo dalla scena indipendente del teatro di ricerca.

Lo spettacolo Vocazione si porta dietro tutto il retaggio e la fatica degli anni di “trincea”. Un lavoro “sull’artista”, come afferma Manfredini stesso, composto come una sorta di medley di frammenti di scritti teatrali e poetici, prevalentemente quelli dove l’attore si interroga sulla sua vocazione, motivazione esistenziale ed etica in merito a ciò per cui e di cui vive.

In un susseguirsi episodico si assiste a brevi mise en scène da opere quali il Parsifal di Mariangela Gualtieri (altra personalità di spicco del teatro italiano di ricerca), l’Amleto scespiriano ̶ di cui Manfredini firma nel 2012 un’importante regia al Teatro Parenti di Milano ̶ , e Il Gabbiano di Čhecov.

La scena basata sul capolavoro cechoviano vede in scena Manfredini/Nina e Vincenzo Del Prete/Kostja, riprendendo proprio il punto del testo originale nel quale lo scrittore e l’attrice, in preda a un amore impossibile e dannato, ragionano intorno alla fede e alla propria motivazione esistenziale. Nina sostiene di averla trovata, partendo dal presupposto che “l’essenziale non è la gloria, il lustro, ma la capacità di soffrire”. Kostja, imminente suicida, non trova una ragione valida per continuare a immaginare mondi e a tracciarne l’esistenza con la scrittura: “io non so in cosa consista la mia vocazione”. Il breve e intenso dialogo, che si conclude con il rumore di uno sparo di pistola fuori scena, viene interpretato da Manfredini e Del Prete con una gestualità accentuata, a seguito del mascheramento dei volti. Cifra stilistica della regia di Manfredini, la maschera (la ritroviamo nell’Amleto e ne Il Sacro Segno dei Mostri), contribuisce ad esaltare la corporeità intera degli attori, assieme alla voce/corpo, fondamento principale di questo genere di teatro, basato sull’introiezione del testo per poi renderne sino alla più infinitesimale e invisibile sfumatura attraverso un dettaglio della postura, del movimento, del timbro. Una vibrazione eufonica e la parola diviene canto; Vocazione ha infatti una partitura composta da brani interpretati da Manfredini, tra i quali ricordiamo una cover di “Ci sono molti modi” degli Afterhours, e la bella “Labbra Blu” dai Diaframma.

Per quanto riguarda la costruzione drammaturgica e il montaggio scenico, i frammenti dei testi cari all’autore sono interpolati da suoi spunti autobiografici. Notevole a tal proposito è la scena dei cowboy milanesi di periferia, accompagnata da un brano interpretato da Manfredini che sa di strada e scarpe infangate, bagni pubblici e chilometri di notte. Un lirico spaccato su una vita nomade, come quella dell’attore, in precario equilibrio tra la volontà di andare avanti e quella di fermarsi, portando avanti la convinzione che “Dove ci sono arte e talento non esistono né vecchiaia né solitudine malattie e persino la morte conta per metà” (da La morte del cigno di Čhecov), e la speranza che il pubblico ci sia sempre, come la rete di atterraggio per un funambolo che cade da venti metri d’altezza.

Il finale vede l’attore come una drag queen, con tanto di ali rosse posticce, tacconi paiettati e gonnellina fucsia di finto struzzo, che invita ad esperire “la morte in vita e la vita in morte”, un attimo dopo aver recitato un brano della Conversazione con la Morte di Giovanni Testori .

Attraverso la voce multiforme di Manfredini, tutto quello che è avvenuto in una vita dedicata di fatto all’effimero, acquista solennità e si fa autoritratto, dove prevale l’animo di quello che fu guitto pasoliniano di periferia, a significare che lo spettatore, di fronte a Vocazione, se si aspettava la tronfiezza del sapere e la prosopopea del maestrino vedrà le proprie aspettative disilluse (“Cari, poveri, e forse delusi amici”!). Bisogna sporcarsi le ginocchia col fango, per arrivare alla magia della metamorfosi attoriale, da vecchio a donna, da Parsifal ad Amleto. La vocazione non è tocco di belletto, ma atto di fede .

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Autore

Redazione

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