Dante Antonelli | Fäk Fek Fik

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ph RomaFringeFestival.net

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 Fäk Fek Fik – Le tre giovani – Werner Schwab
da un’idea di Dante Antonelli
con Marta Badiluzzi, Giovanna Cammisa, Arianna Pozzoli
drammaturgia collettiva a cura di Dante Antonelli
ambiente scenico Francesco Tasselli
ambiente sonoro Samovar
costumi Nina Ferrarese
Dal progetto SCH.LAB
con il sostegno di Duncan 3.0 e del Forum Austriaco di Cultura e di Centro Spettacoli Teatrali
 
Carrozzerie N.O.T, 27 novembre 2015 Roma

 

Irregolare come le tre donne che lo interpretano, Fäk Fek Fik, da un’idea di Dante Antonelli, è uno spettacolo che si basa tutto sul testo drammatico e la sua introiezione da parte delle attrici (& autrici) Marta Badiluzzi, Giovanna Cammisa e Arianna Pozzoli.

Queste schegge impazzite per eccesso di lucidità – in una rappresentazione che le pone al centro e senza barriere tra sé e lo spettatore – mostrano un malessere, un disagio – perché no – generazionale. Non ci si immergono, come in pozzo nero, ma se ne distanziano, con rabbia e ironia. Le tre raccontano, o meglio presentano, sostanzialmente la propria storia e quotidianità.

Ci vuole un certo eroismo, e una certa resistenza alla disperazione, per fronteggiare tutte le difficoltà che vengono elencate, con intermezzi lirici e cinici. Le peripezie possono essere banali, ma qui sono appunto epicizzate in un crescendo che unisce voce e gesto. I temi sono molteplici: il rapporto morboso con la famiglia, le relazioni sordide con sconosciuti vari per avventure consuete e taciute, la difficoltà di trovare un posto di lavoro dignitoso e l’impossibilità di essere libere. Gabbie ovunque per chi non ha la capigliatura canuta né un conto in banca ingrassato dal genitore capitalista, o per chi non corrisponde esattamente al canone sociale corrente. “Sali anche tu sulla ruota dell’aspetto esteriore”, con voce suadente e amara suggerisce una delle attrici. Ed eccole spogliarsi, fare boccacce, diventare brutte per poi ritornare belle, con abiti nuovi, alla moda. Il tentativo di inserirsi in società cela però una sofferenza: malgrado gli abiti tirati a fresco, il rossetto rosso shocking e il loft al quinto piano, solo l’uso massiccio di droghe e il sesso occasionale possono aiutare a sopportare il datore di lavoro, la famiglia, l’amante insensibile. Le tre anime cercano una comunità (eretica comunione), e non trovandola altrove perché non esistente, la ricercano di notte, nei locali, dove spacciatori e sconosciuti sono figure tanto benefiche quanto demoniache. Papa Francesco appare in un momento lisergico, e le brutalità di approccio sono rese dalle stesse attrici tra una intermittenza di senso e l’altra.

Riferimenti all’attualità à gogo, sparsi ovunque, tra la metafora del “nero come la bandiera dell’Isis”, al richiamo alla pratica sotto gli occhi di tutti del rovistare nella spazzatura. “Sette euro e novanta per un cancro” è definito l’acquisto di un filetto di carne, mentre l’accostamento tra pasta al pesto, marijuana e the verde è una brillante composizione en pendant; il Mac Donald’s di Corso Francia uno spauracchio simbolo della schiavizzazione del lavoro presso multinazionali. Come fare dunque a essere liberi, a “non essere impiegati”? Come salvarsi?

“Chi crede nel futuro si fa impiccare per passare il confine”, è questa una delle frasi più potenti e belle del testo, che racchiude tutta la critica alla mollezza della società attuale guardando alla speranza di altri popoli, positività distorta dall’opinione pubblica come invasione.

Una scrittura scenica dove la danza è presente nel fuoriuscire del corpo dalla gabbia della postura fissa. Parallelamente, il linguaggio – comune e urbano, con tratti di slang e di parti cantate – deborda e l’interpretazione si fa urlata, incazzata, cinica e bastarda.

Sporco eppure brillante, Fäk fek Fik, a partire dal testo fino alla coraggiosa e autentica interpretazione delle attrici, passando per il tappeto sonoro di Samovar che rende la pièce maledettamente magnetica. Come gli sguardi delle interpreti nel finale della discoteca immaginaria, che mai perdono di vista l’obiettivo del loro essere in scena, incarnando un testo di cui sono co-autrici – essendo una drammaturgia collettiva, quella curata da Antonelli (primo capitolo della trilogia ispirata ai Drammi Fecali di Werner Schwab di cui è la rielaborazione di Le presidentesse). Uno sguardo che parte dal basso, dal banale e dal fango, per librarsi (come un Gabbiano) in poesia pagana, inno urbano del corpo difforme.

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Redazione

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