J. Panahi | Taxi Teheran

0

cover1300Taxi Teheran, di J. Panahi, Iran 2015, 82′

Produzione Jafar Panahi Film Production

Distribuzione Cinema

@ Al Cinema dal 27 agosto 2015

Vincitore dell’Orso d’Oro alla 66° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino

 Nel mestiere del tassista è sottintesa una continua espropriazione del concetto di meta. Il luogo di arrivo del conducente è, infatti, costantemente mutevole poiché è sempre il luogo verso cui è diretto un Altro sconosciuto e di passaggio. Questa “ontologia tassista” viene rovesciata da Jafar Panahi: non più il taxi come uno spazio mobile fatto di conversazioni estemporanee e superficiali, ma un inter nos in cui le figure si modellano, trasformandosi improvvisamente in furtivi personaggi di una mezza giornata nella capitale iraniana. È questo il senso del lungo pianosequenza iniziale di Taxi Teheran: la mdp installata sul cruscotto del taxi ha il suo occhio puntato sulle strade di Teheran finché una, due, tre persone entrano nella macchina. Le voci delle comparse si delineano e i loro dialoghi si fanno serrati. Ci vorrà comunque qualche minuto affinché quella mdp, rivolta verso la strada, assecondi la nostra curiosità, ruotando di quasi 180° e mostrandoci finalmente i loro volti e quello del guidatore, lo stesso Panahi.

Impossibilitato a “fare il suo mestiere” a causa dell’interdizione “iconoclasta” ventennale comminatagli dal governo iraniano, Panahi veste i panni del tassista, sublimando il divieto e tramutandolo in possibilità creativa: il suo taxi-mdp assume i tratti di un vero e proprio miniset cinematografico in grado di raccontare, proprio come un film, differenti storie che, col passare dei minuti, tra protagonisti bizzarri e una forte critica sociale con evidenti cenni autobiografici, svelano il sottile gioco metacinematografico.

taxi-téhéran

Nonostante i parecchi dubbi lasciati allo spettatore sulla natura dell’opera – ci chiediamo infatti più volte se il film sia totalmente un mockumentary oppure una sorta di documentario ibrido –, quello di Panahi si rivela un cinema d’avanguardia che, lavorando su un concetto fortemente contemporaneo di neorealismo e criticando sia didascalicamente sia attraverso le immagini il “Realismo becero” di regime, trasforma il rischio di un’impasse forzata e la sua contigua clandestinità in un territorio in cui la registrazione del quotidiano, intesa come proficuo coacervo d’infinite storie possibili il cui complessivo sviluppo può esser messo fuori campo solo parzialmente e solo in maniera fallimentare, rimodula il suo potentissimo statuto narrativo e cinematografico.

Lungi dall’essere un semplice attore-regista, Panahi gioca tutto Taxi Teheran intorno alla figura del testimone: da una parte è lui a esser il primo occhio e il primo testimone di ciò che gli accade intorno, dall’altra sono i passeggeri e i vari device che occupano di volta in volta l’abitacolo a testimoniare gli avvenimenti sorpassando il punto di vista singolare della mdp del regista in un vero e proprio climax mediale. Sono tre i casi lampanti in cui ciò avviene:

  • L’iPhone dello stesso Panahi cattura il testamento dell’uomo ferito donando al momento una forte spettacolarizzazione tipica dei filmati prodotti da “reporter improvvisati”;
  • Un iPad riproduce le immagini di una rapina e di un pestaggio subiti dall’ex vicino di casa di Panahi, che, in questo caso, assurge a vero ruolo testimoniale poiché si fa portatore – e dunque mediatore – di quell’istanza di verificabilità che lo spettatore richiede poiché impossibilitato a vedere direttamente le immagini;
  • La fotocamera digitale della nipote di Panahi riprende, simultaneamente alla mdp del regista e alla telecamera del reporter di un matrimonio – allusione a una nuova minispettacolarizzazione –, un ragazzino che trovati dei soldi a terra è indeciso se restituirli o meno.

Taxi-Teheran-di-Jafar-Panahi-03

In quest’ultimo caso Panahi trasforma in immagini tutti i discorsi fatti con i personaggi, esponendoci sul precipizio di un cinema in cui la visione del soggetto cinematografico si moltiplica, differenziandosi in una scomposizione di sguardi e punti di vista plurimi. Non più histoire(s) du cinéma dunque, ma histoires de vie au cinéma in cui l’elemento metacinematografico si cala perfettamente nel cinema oltrepassando in maniera spuria la teoria zavattiniana del pedinamento del reale.

Print Friendly, PDF & Email
condividi:
   Send article as PDF   

Autore

Lorenzo Cascelli

Ho conseguito la Laurea Magistrale in Estetica nel 2012 con una tesi su "The Tree of Life" di T. Malick e "Melancholia" di L. von Trier presso il dipartimento di Filosofia dell'università "La Sapienza" di Roma. Caporedattore prima di Arte e Libri e poi di Cinema presso Pensieri di Cartapesta, da Aprile 2014 sono direttore editoriale di Nucleo Artzine.

Lascia un Commento

Continuando ad utilizzare il sito, l'utente accetta l'uso di cookie. Più info

Le impostazioni dei cookie su questo sito sono impostati su "consenti cookies" per offrirti la migliore esperienza possibile di navigazione. Se si continua a utilizzare questo sito web senza cambiare le impostazioni dei cookie o si fa clic su "Accetto" di seguito, allora si acconsente a questo.

Chiudi