Licia Lanera | 2.(Due)

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di Riccardo Spagnulo e Licia Lanera

diretto e interpretato da Licia Lanera

produzione Fibre Parallele

20 Gennaio 2017. Teatro dell’Orologio, Roma

“Chi mi può dare l’amore, può farmi soffrire e farmi morire” canta Stefania Rotolo in una vecchia canzone del ’79, Cocktail d’amore, che fa da sfondo sonoro all’ingresso del pubblico in sala.

Il palco è bianco. Spaventosamente bianco.

La scena è delimitata da un pavimento di sacchetti di plastica bianchi che formano un grosso quadrato, illuminato da due neon bianchi, posti sui lati; sul fondo invece c’è una vasca bianca su cui pende un enorme specchio che dovrebbe rifletterne il contenuto, ma ad ostacolarne la visuale è la posizione dell’attrice, in piedi, di spalle al pubblico, con le mani a bordo vasca e i capelli multi color riflessi nell’alto specchio.

Capelli, unghie e rossetto dell’attrice – Licia Lanera – paiono gli unici elementi di colore dell’intera scenografia. Eppure non tutti i sacchetti sono stati livellati sul terreno: ve ne stanno tre, infatti, che gravano impiccati a tre cavi di diversa lunghezza, bianchi solo all’apparenza, ma ripieni di un liquido rosso.

Si evince sin dai primi istanti, dunque, quanto sia drammaturgicamente simbolico l’utilizzo del colore in 2.(Due): il rosso del sangue e delle smodate passioni umane macchia e quasi violenta, con la sua forza, la vastità del bianco puro, freddo, asettico…da ospedale…da ospedale psichiatrico.

Alla prima battuta della protagonista è già chiara infatti la lucida follia che l’ha soggiogata: – L’amore non mi parla più, ma tanto io non sento più niente -.

La canzone iniziale è terminata. Dalle casse si ode adesso uno strano suono stridente, a tratti robotico, che, nell’incalzare del ritmo, sembra essere sempre più decifrabile come fogli di carta strappati o pezzi di vetro calpestati. La protagonista pare prendere forma su questo suono, o forse è stata proprio lei a crearlo.

La sua voce risuona all’interno del Teatro dell’Orologio come una fastidiosa cantilena, glacialmente monocorde, priva di qualsiasi colore ed espressività vocale.

I microfoni ne inaspriscono ulteriormente l’effetto.

Ci appare come un involucro vuoto, senza emozioni, che vomita ricordi felici di una coppia di innamorati: l’incontro, le telefonate, la prima cena a base di ricci di mare, la prima volta…

E poi – Silenzio -.

Licia Lanera spezza d’un tratto il ritmo della sua narrazione, pausando e cadenzando il flusso del racconto con la parola “Silenzio”. Il silenzio del non detto, il silenzio che cela l’indicibile, il silenzio che prepara ad affrontare la terribile rivelazione finale: – Ecco, non è che non mi piaci più…è che mi piace anche il cazzo -.

Luca, l’uomo che avrebbe dovuto sposare, l’uomo con cui avrebbe dovuto metter su famiglia, l’uomo con cui avrebbe comprato la TV al plasma da mettere in salotto, l’ha tradita con un altro uomo. Inevitabilmente sogni, desideri, progetti vanno in frantumi, ma non basta una dubbia omosessualità per disgregare anche l’ossessiva dipendenza amorosa che la lega a lui “finché morte non ci separi”. Dunque inizia un difficile e lento processo di accettazione che rasenta il paradosso – persino in fatto di uomini avevamo gli stessi gusti –, volto alla definitiva riconquista di lui.Ma ancora una volta basta un attimo per distruggere quel briciolo di umanità, quel minimo di senno che a stento teneva i pezzi di una mente snaturata.Per caso la protagonista incappa in un video porno gay in camera di Luca.

La drammaturgia del colore raggiunge il suo climax.

L’attrice estrae uno spillo con cui inizia a forare, con estrema precisione, i tre sacchetti che scendono giù dal soffitto, dai quali sgorga lento il denso liquido rosso, mentre ci racconta di come, accecata dalla follia, entrò in cucina colpendo Luca al collo con un forchettone.

Ai due colori che inesorabilmente si miscelano adesso sulla scena si aggiunge un terzo colore, invisibile agli occhi ma inaspettatamente dominante: il nero della tragedia.

Il racconto diventa all’improvviso uno splatter sulla faticosa procedura da attuare per uccidere un uomo a mani nude e con arnesi da cucina. Il selvaggio, atroce, dettagliato resoconto dell’assassinio viene scandito sonoramente dal lento gocciolare delle tre sacche sul tappeto bianco, sotto il quale dei microfoni nascosti ne amplificano il suono, che rimbomba ritmato e disturbante nell’animo del pubblico, sempre più forte, sempre più rapido, quasi ad evocare gli ultimi battiti di un cuore che lotta con fervore per rimanere in vita.

E poi silenzio.

Questa volta non proclamato, non annunciato.

Liberatorio.

Ci vuole un secondo più del solito prima che il pubblico esploda in un caloroso, grato e lunghissimo applauso.

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Autore

Tony Scarfì

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