Speciale TdV 9 | Enzo Cosimi, La bellezza ti stupirà

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ph Carolina Farina

ph Carolina Farina

di Enzo Cosimi

regia, video e coreografia Enzo Cosimi
costumi Fabio Quaranta
disegno luci Gianni Staropoli
assistente ai costumi Jlenia Salvato
violoncello Flavia Passigli
organizzazione Flavia Passigli
produzione Compagnia Enzo Cosimi MIBACT Cagliari Capitale Italiana Della Cultura 2015
con la partecipazione dei cittadini
 
10 Novembre 2015, Carrozzerie N.O.T, Teatri di Vetro 9, Roma

Un «defilè onirico», dai contorni netti di una luce pubblicitaria, sparata bianco fulgido, con sprazzi di rosso acceso. Ricorda Cherry Blossom Picture di Gilbert & George, senza la violenza implicita della serie di opere dei due artisti inglesi, con l’intento di abbattere il confine tra arte e vita.

La bellezza ti stupirà, opera del coreografo e regista Enzo Cosimi, si snoda al ritmo del passo cadenzato di nove performer che da ready made umani, nel loro essere homeless, affermano una presenza che si ribella all’indifferenza collettiva per incontrare un’esibizione consapevole, dove il corpo si fa icona teofanica trasfigurata dal contrasto di un curatissimo light design e dal ritualismo del gesto. Come nei video della Vevo Generation, qui il contesto urbano è la terra di nessuno dove si manifesta una vibrazione espressiva, da cogliere e ri-collocare in un contesto artistico.

Gli spettatori sono disposti in due spalti, gli uni di fronte agli altri, e assistono a una passerella che taglia in due il perimetro scenico. Un uomo in frac intona a cappella un canto sentimentale, dove “chi non piange è senza cuore”. In seguito alla sua uscita, gli interpreti/homeless si avvicendano prima prendendo da un mucchio uno degli abiti di Fabio Quaranta – austeri, eleganti senza sfarzo, redingote, giacche di feltro, cappotti – poi raggiungendo un fascio di luce che li incontra e ne definisce i tratti. Nell’andare verso la luce, dunque incontrando l’esposizione allo sguardo altrui, guardano verso, oltre, gli spettatori.

Attraverso la banalità del gesto di indossare degli abiti, eseguito con una sottolineatura del movimento che traspone l’abitudinarietà rendendola sacrale, i volti acquistano una bellezza patinata, che contrasta apertamente con le tracce esistenziali – ferite, cicatrici, tatuaggi, protesi, bastoni ortopedici. É in atto una metamorfosi, veicolata da una sapiente regia, che parte da uno dei grandi dati irrisolti (e dei tabù) della società contemporanea, ossia i cittadini “senza nome”, senza casa, senza lavoro, che vivono come ombre pur essendo pubblicamente visibili.

Un sosia di Tom Waits, un uomo dal volto dorato con un tatuaggio simil-militare, una Whoopi Goldberg dallo sguardo triste; questi alcuni dei modelli della Bellezza di Cosimi, più irreali del contesto che li ospita, più brillanti di prezzolate pailettes.

Non c’è istanza pietista o strumentalizzazione di un freak show, i perfomer sono consapevoli di essere nel qui e ora di un evento scenico, immersi in quello che risulta un dispositivo performativo/visuale: intima relazione tra il dato visivo e magnetismo della presenza.

Ricordando le performance di Joseph Beuys, figura a cui si richiamano i costumi e il volto dipinto d’oro di uno dei performer (How to explain pictures to a dead hare, 1965), il corpo è di fatto opera vivente, segno e forma figurativa.

ph Enena Tomei

ph Enena Tomei

Dopo la sfilata visionaria, – il gruppo, posto alle spalle degli spettatori, intona un inno tribale, fatto di pochi e semplici fonemi, intonandolo in un crescendo, al termine del quale la performer Flavia Passigli entra in scena, portando con sé un violoncello. Contro ogni aspettativa, lo strumento viene riposto sul pavimento e la performer vi si pone di fianco. Un’azione perturbante, che denota l’osmosi tra l’oggetto e il corpo, una negazione e un rifiuto all’intrattenimento, incontrando l’immobilità statuaria e la stasi; come gli stessi performer che al termine della sfilata, seguendo un ritmo preciso, si incontrano sul suolo, uniti in un unico corpo attorcigliato, come maglie di una rete, illuminati da un fascio di luce rossa.

Durante l’evento scenico, sono proiettate le immagini prese dalla strada degli homeless incontrati durante le varie tappe del progetto, comprendente numerose città italiane. Sono colti sulle panchine, per strada, gli Angeli della desolazione, i dimenticati dalla società. Al termine della performance, restano unicamente i volti in primissimo piano che parlano, attraverso stralci di registrazioni video, delle proprie vite. Cacciati di casa dai genitori, usciti vivi da una casa in fiamme, maltrattati dalle forze di polizia, ex-lavoratori e appellantesi a Gesù Cristo, i protagonisti della Bellezza non hanno sovrastrutture e non hanno illusioni, “la vita è un tunnel senza uscita”. Non c’è un finale rassicurante, né una melodia accattivante.

L’operazione di porre un basamento e traslare un dato fenomenico, dopo anni di post-duchampianesimo continua ad avere senso. Ed è straniante vedere applaudire degli individui (riottosi, vissuti, dannati) generalmente ignorati e deprivati di qualsiasi diritto di parola. Lo spettatore è dunque parte integrante dell’opera, nel suo partecipare ad un capovolgimento del proprio microcosmo quotidiano; gli si para dinnanzi la bellezza e lo stupisce, per la purezza e l’essenzialità con cui si mostra. Non sono in vendita quegli abiti, non sono dei modelli a sfilare, non ci sono marche. È un miracolo che sconvolge il contesto della rappresentazione spettacolare, come un rito contemporaneo, dove un’orizzontalità tra la scena e gli spettatori crea un’unica dimensione evenemenziale. All’interno del quale, però, non c’è redenzione per lo spettatore. É il grido di battaglia di guerrieri senza armi, se non il proprio corpo quale opera, per “mutare il trauma in potere”. Per un’ora soltanto, per lasciare un segno.

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Redazione

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