Speciale Tdv9 | Intervista a Gruppo Nanou

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Qual è la chiave di volta di un rebus di suono e visione, partitura trasversale che unisce danza e arte visive? Forse la mappatura di linee e gestualità che agisce e inter-discorre con la moltitudine dei corpi/materia, protagonisti di un evento scenico che appare quale fatto impersonale, enigma irrisolvibile che si fa attraversare dallo sguardo spettatoriale. «Senza calembour e senza indovinelli, non c’è arte seria», scrisse Jean Cocteau a proposito dell’opera del de Chirico, e in Baby Doe la distillazione delle risoluzioni è poetica eloquente.

Marco Valerio Amico di gruppo nanou, realtà fondamentale della danza di ricerca di questi anni Duemila (ormai anni Dieci), discute in merito al processo creativo e al concept di Baby Doe, presente nell’ ambito della rassegna Teatri di Vetro 9 – La comunità che viene alla Fondazione Volume! dal 12 al 15 Novembre.

Gruppo Nanou.Baby Doe4

Angela Bozzaotra: Partiamo dal titolo, è collegato a “John Doe”, lavoro precedente, e in che modo?

Marco Valerio Amico: Sì. Baby Doe fa parte della stessa progettualità di John Doe. É un percorso che si svilupperà ancora per due anni con altre due produzioni.

Si tratta del rapporto della figura nello spazio geometrico, l’abbandono del paesaggio borghese (Motel, Strettamente Confidenziale) per afferrare la forza dello spazio astratto, della campitura in cui inscrivere il corpo, dell’isolamento della figura e del suo spaesamento perché sottratta al suo habitat, declinato per focus di indagine.

A.B. : Quali sono i riferimenti letterari che ispirano concettualmente il lavoro? Leggo di Raymond Carver e dei suoi personaggi senza identità”. Come in un film noir, in “Baby Doe” sussiste un mistero del corpo senza nome?

M. V. A. : Di Raymond Carver si afferra la visione de “il momento sbagliato”, l’indiscrezione che lui è capace di generare e l’assenza continua di risoluzione del dramma. Ma questo è un discorso che si è affrontato su John Doe, scorsa tappa del progetto. Qui di Carver non abbiamo nulla. Quando parliamo di riferimento letterari, non sono mai “narrativi”. In Baby Doe il riferimento, la declinazione del progetto, è l’Infanzia di cui si assume l’esercizio fisico, sempre “difficilissimo”, che determina l’inciampo: un avvenimento inaspettato che sospende l’azione, la sposta altrove, disorganizza la consequenzialità degli eventi. Ciò che accomuna e accomunerà tutti i progetti è “l’assenza di identità”, una perdita del “documento di identità” che riporta la figura ad “oggetto”, corpo, cadavere, geometria. L’oggetto non è il mistero del corpo. É il suo essere tutti e nessuno. In questa “nullità” definire lo scatenamento dell’immaginario.

Gruppo Nanou.Baby Doe

A.B. : In che modalità avviene la scrittura coreografica e la collocazione del corpo nello spazio scenico? Quali caratteristiche possiede quest’ultimo nella vostra estetica?

M.V. A. : Baby Doe è il procedimento attraverso il rigore di una strategia creativa giocata sulla formalizzazione della figura e del recinto che la perimetra: spazio interno come misura specifica, geometrica, del quadro e dell’esistenza rappresentata.

La forma antropomorfica è inevitabilmente in conflitto con il recinto geometrico.

La geometria di tale recinto assume l’esperimento retorico della perfezione, in quanto funzionale allo scatenamento prodotto sulla figura interna spaesata in un centro impossibile. Dato questo input progettuale, definito questo “assunto”, la coreografia è un processo di scrittura con il danzatore che dall’improvvisazione costruisce il corpo e ne determina l’esattezza. É fondamentale che il corpo sia definito sulla peculiarità del danzatore con l’obiettivo di renderlo insostituibile se non nell’alterazione del prodotto formale.

A.B. : Il vostro lavoro è fortemente legato alle arti visive. Quali sono i riferimenti del vostro immaginario in tal senso? Come si coniugano, e tramite quali dispositivi, con la danza/le arti performative?

M.V.A. : Le arti visive sono sempre di grande spunto progettuale per il nostro lavoro. In particolare il cinema e la fotografia. Se il cinema ci ha da subito fornito la metodologia di lavoro in cui le competenze di ognuno vengono messe a disposizione e coordinate con autorialità per il raggiungimento di un obiettivo (lo spettacolo), la fotografia ci ha permesso di comprendere la costruzione coreografica dei nostri lavori: è l’azione che determina la figura, non può accadere diversamente altrimenti si otterrebbe solo un disegno. L’immagine che si determina è uno scarto, un residuo di ciò che l’azione determina.

A. B. : La campagna di promozione tramite social network di Teatri di Vetro 9 si è basata ironicamente sull’assenza all’interno del Festival di personaggi come star o intellettuali/artisti, magari già morti. È questo un evidente riferimento al passato e all’oggi. Come si rapporta invece la vostra presenza al Festival rispetto al suo titolo – «la comunità che viene» –, che ci sbilancia fortemente verso il futuro? Verso che tipo di possibile o impossibile – seguendo l’hashtag #lacomunitàchenonviene – comunità ci stiamo proiettando?

M. V. A. : Impossibile è oggi pensare ancora alle arti performative in Italia. Già questo è un immaginare un futuro poiché il presente sconsiglia proprio di essere qui. Impossibile è oggi essere una compagnia che desidera strutturarsi sempre più per la costruzione e lo sviluppo di un linguaggio personale, che ha bisogno di tempo e spreco per formare corpi, disfare certezze e rischiare ogni volta sul proprio linguaggio e la propria forma, artistica e organizzativa. Eppure, non ci sentiamo in un’ottica di resistenza. Non abbiamo mai avuto queste opportunità. Continuiamo a percorrere un desiderio per, speriamo, tracciare un futuro non solo per noi.

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Redazione

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