UN ANGELO SOPRA BAGDAD
(Palace of the end)
di Judith Thompson
traduzione Adamo Lorenzetti
regia Marco Carniti
con Pamela Villoresi, Antonella Civale, Gianluigi Fogacci
scenografia Nicolas Hunerwadel
in collaborazione con Francesco Scandale
costumi Belén Montoliù
luci Paolo Ferrari
ripreso da Umile Vainieri
spazio sonoro Massimo Carniti, David Barittoni
disegno grafico Massimo Carniti
produzione esecutiva Franco Cortese
Dal 23 al 27 maggio 2012 – Teatro India, Roma
Una foschia di ignoranza, brutale sadismo e confusione annebbia gli occhi dello spettatore e la mente dei protagonisti: appena percettibile, ma sufficientemente invasiva da alterare a dovere la verità. Una foschia che, nonostante l’apparente leggerezza, travolge, schiaccia, possiede l’anima di chi vi rimane invischiato, come tra le grinfie di un demonio.
Chi riesce a respirare là dentro? Si resiste, si soffoca. Il fiato rimane trattenuto per tutta la durata della performance, creando una sensazione sempre più claustrofobica, che non svanirà neanche al termine della pièce. Tre gabbie in fil di ferro ospitano i rispettivi testimoni, colpevoli o vittime che siano, dei frutti deformi della guerra in Iraq, di tutte le guerre. Le luci e i suoni, sapientemente calibrati, contribuiscono a esasperare l’effetto di cupa dimensione, sia fisica che interiore, assecondando con intelligenza la variabilità degli stati d’animo.
Tre voci, tre pugni nello stomaco, un’unica consapevolezza dell’assurda volontà di chi benedice conflitti così atroci. Non c’è posto per gli angeli nel cielo di Bagdad, ricoperto dalla fuliggine delle bombe e dall’odio di popoli sanguinolenti, ottenebrati dalla violenza, dal desiderio di affermazione di un sé microscopico, confusi da specchi deformi e indistruttibili. Tuttavia, la coscienza parla sempre: che sia il sussurro flebile di una volgare carceriera, il mea culpa di uno scienziato disgustato o il grido straziante di una madre poco importa. L’anima si ribella a questo scempio, perché l’uomo non è nato per odiare.
Il palco è una prigione, una camera di tortura: è Abu Ghraib, è il bosco di Harrowdown Hill, è il Palazzo della fine, prima dell’avvento di Saddam Hussein Palazzo dei fiori.
Di queste orribili storie qualcosa è giunto alle nostre orecchie: stralci di verità filtrate dai governi, dalla stampa, dall’opinione pubblica. Mettere insieme i pezzi del puzzle non è un’operazione indolore. Siamo travolti dalla trivialità di Lyndie England, prodotto di una sottocultura americana, il cui linguaggio scurrile ci schiaffeggia senza tregua, mentre racconta delle sue prodezze con i detenuti del carcere di Abu Ghraib, ridotti a cose o ad animali, umiliati oltre ogni dire. Non c’è ragione di fare questo, è la risposta di un saggio prigioniero, stanco di tanta perversione.
Nessuno reagisce finché non viene direttamente chiamato in causa. La guerra la conosciamo per sentito dire e rimaniamo spettatori impassibili, narcotizzati di fronte allo scempio di soldati che violentano le donne, uccidono i civili dopo averli martoriati, massacrano di bastonate bambini di otto anni, appendendoli sanguinanti a un ventilatore, a testa in giù, per frullare l’ultimo grammo di dignità rimasto dentro un corpo ridotto in poltiglia. Questo lo sa bene David Kelly, microbiologo inglese, spin doctor, venditore di storie contraffate circa l’esistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq. Solo dopo aver perso i suoi beneamati amici iracheni, avrà il coraggio di vomitare una disperata confessione alla BBC. Qualche tempo dopo viene trovato morto con i polsi tagliati, drogato di barbiturici. Omicidio o suicidio non è dato saperlo.
L’angelo che vola sopra Bagdad è la moglie di un capo del Partito Comunista che, dopo essere sopravvissuta all’inferno, muore banalmente sotto le bombe di liberazione americane. È lei l’incarnazione del paradosso, del non-senso, dell’assurdo. Le sue urla sono il grido disperato contro ogni barbarie che azzera l’identità dell’uomo.
Il regista Marco Carniti ha portato in scena un rompicapo esistenziale, inserito all’interno di un teatro di riflessione. Non si può tornare a casa senza essersi chiesti un ennesimo perché. Gli attori, tutti eccellenti, non avrebbero potuto fare di meglio.