ATELIER DEI 200
Tappa al Teatro di Roma del progetto Atelier dei 1000, destinato al pubblico della città e promosso da sei teatri membri dell’Unione dei Teatri d’Europa di Italia, Francia, Austria, Bulgaria, Portogallo e Germania.
Condotto dai registi:
Gabriele Lavia, su L’infinito di Giacomo Leopardi
Vincenzo Pirrotta, su Edipo Re di Sofocle
Claudio Longhi, su un montaggio di testi di Giuseppe Gioacchino Belli, Tommaso Campanella, Alessandro Manzoni e Edoardo Sanguineti
Pierpaolo Sepe, su Come certi animali di Andrej Longo
23 e 24 giugno 2012
Teatro India – Roma
Il 23 e il 24 giugno si è tenuto al Teatro India di Roma l’Atelier dei 200, due giornate dedicate all’esperienza diretta del palcoscenico per 200 cittadini, non obbligatoriamente attori, ma giovani, adulti e studenti interessati a scoprire la magia della scena, ampliando i loro criteri di giudizio di spettatori. L’iniziativa ha riscontrato un considerevole successo, denotando un interesse attivo e partecipativo da parte del pubblico romano e non. I partecipanti si sono messi in gioco, hanno vinto pudore, pigrizie e timore e hanno contribuito alla realizzazione di brevi rappresentazioni ad opera di grandi registi italiani.
L’Atelier diretto da Gabriele Lavia, attraverso l’analisi e la recitazione del componimento leopardiano, si è configurato come una vera e propria passeggiata interiore per raggiungere un’oasi di Bellezza, descritta dallo stesso regista come «trasparente luminosità del mistero». Il percorso culturale guidato da Lavia è lungo e profondo, da Platone a Cartesio – posti come emblemi del soggetto e della voce del vento che stormisce tra le piante -, da Sofocle a Pascal – vessilli della ragione del cuore e di quello infinito silenzio che colma gli interminati spazi al di là della siepe -. Il regista non manca di rimarcare quanto il teatro, «arte collettiva», debba costantemente tener presente l’antica Grecia, per ritrovare non solo la sua genesi, ma anche e soprattutto il principale strumento dello spettatore: il guardare, che per oltrepassare la superficie diviene lasciarsi guardare. Approfondita anche l’analisi sul lavoro attoriale che è finzione nella misura in cui mette in opera la realtà.
Vincenzo Pirrotta, invece, dirige un coro di 200 persone per l’Edipo Re sofocleo, chiedendo ai partecipanti di usare le sofferenze quotidiane e reali di ognuno per restituire il dolore causato dalla peste. Mette al centro del palco una sedia, dapprima simbolo dell’autorità e in seguito altare, luogo in cui i cittadini si rivolgono a Zeus. L’imponente coro riempie il palco, trascinando i sospiri atroci di una città morente, e nel momento liberatorio in cui gli appestati cercano il contatto con il re, esso diviene sacerdotale, divino. È la catarsi che trasforma l’espressione della sofferenza in urlo: la città pretende di essere guarita, liberata, elevata dal Dio. Il gesto conclusivo dello stasimo scelto da Pirrotta, vede un coro ormai furente, iracondo, che si tende verso il cielo per scaraventare a terra la divinità ingiusta. E ritroviamo Artaud e il suo Teatro della Crudeltà, nelle parole del regista: «Lo spettatore che assiste allo spettacolo non deve rimanere tranquillo nella sedia, deve sentirsi chiamato in causa, finanche violentato».
L’Atelier di Claudio Longhi propone una visione spiccatamente sociale del teatro, e il palcoscenico del Teatro India diviene una città caotica, fatta di gruppi di passanti che si incrociano, recitando brani in romanesco, o estratti da articoli di giornale. Longhi sceglie testi di Belli, Manzoni e Sanguineti per dare forma alla folla che abita la città infernale, alla quale oppone, con La città del Sole di Campanella, l’anelito alla costruzione di un città utopica, abitata da una comunità. Al termine della mise en scène, il regista chiede agli ormai attori di scrivere su un foglio una parola necessaria, e regalarla ad un compagno; conclude la sua lezione con un invito: «Cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio. – Da Le città invisibili di Italo Calvino».
A terminare il laboratorio, la lezione di Pierpaolo Sepe esercita una funzione sconvolgente. Il regista parte dal gesto scenico, nato dalla possibilità intima che si amplifica per raggiungere lo spettatore; ma perché il gesto offra al pubblico e all’artista un momento di bellezza, deve affinarsi: «È un gesto d’amore folle, di bellezza pura che l’attore dona alla comunità di cui fa parte». Il metodo seguito da Sepe conta molto sulla proposta che proviene dall’interprete, onde evitare un’impronta registica dall’alto troppo marcata. Invocando l’assenza di regole dionisiaca, il regista chiede ai partecipanti di seguire la proposta drammaturgica musicale, e tradurla in un gesto che sia unico, ma soprattutto onesto. Mentre la voce – drammatica e intensissima – di uno di loro legge Come certi animali di Andrej Longo: «Quel pensiero, che io, come certi animali, non sia tra quelli che nel vuoto si lanceranno e si lanciano, senza apparente ragione, ogni giorno, ovunque, nel nulla».
Il risultato complessivo di una tale esperienza emerge limpido e sorprendente: un successo. I 200 cittadini e spettatori divengono, oltreché fruitori, fautori dell’incantamento: la magia del rito è compiuta. Nel teatro si è sviluppata, in pochissimo tempo, un’energia potente e creativa che ha stupito anche i maestri. Il riscontro positivo dell’evento ci induce a sperare in una replica, quanto mai subitanea, del progetto, e – perché no? – di una futura proposta formativa, sia amatoriale che professionale, da parte del Teatro di Roma.