INTERVISTA A CLAUDIO LONGHI

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Claudio Longhi si è laureato in Letteratura Italiana all’Università di Bologna, ateneo presso il quale è attualmente Professore Associato confermato in Discipline dello Spettacolo; contemporaneamente, insegna Storia del Teatro presso la «Scuola del Piccolo Teatro di Milano» per la formazione di giovani attori. Al lavoro di ricerca – essenzialmente dedicato allo studio della drammaturgia moderna, così come all’indagine intorno alla storia dell’attore e alla nascita ed evoluzione del linguaggio registico –, Longhi affianca l’impegno teatrale attivo: ha lavorato come assistente con i maestri Pier Luigi Pizzi e Graham Vick, e successivamente con Luca Ronconi in qualità di assistente prima e regista assistente poi. Ha inoltre firmato in proprio la regia di spettacoli per il Teatro di Roma, per il Piccolo Teatro di Milano, per il Teatro Stabile di Torino, per il Teatro Due di Parma e per Emilia Romagna Teatro Fondazione.

Cecilia Carponi: Stiamo cercando di indagare quale sia l’orizzonte culturale italiano in questo particolare momento storico: lei in che tipo di clima sente di operare?

Claudio Longhi: … momento di panico. Credo sia troppo facile arroccarsi in visioni pessimistiche. Mi viene in mente un libro, Il senso della fine di Kermode, in cui l’autore sostiene che tutte le epoche si sono sempre sentite come sull’orlo di un abisso; mi piace ricordare questo concetto per relativizzare ciò che abbiamo intorno. Nonostante questo, il panorama culturale che ci circonda non è dei più confortanti. Quando – da docente universitario – incontro i miei studenti, mi capita spesso di pensare a quanto io sia stato fortunato: nei percorsi che ho intrapreso nella mia vita, ho avuto la possibilità di confrontarmi con dei grandi maestri, da Raimondi nel campo dell’italianistica, a Luca Ronconi in campo teatrale, da Edoardo Sanguineti a Marisa Fabbri. Forse il nostro tempo non abbonda di figure di questo tipo – nel mazzo inserisco ovviamente anche me stesso -. È difficile individuare forti punti di riferimento nel panorama culturale italiano. Quello che maggiormente sento mancare oggi, è la capacità di unire la perizia tecnica, l’ampiezza di visioni, un uso forte dell’impegno etico-polito e una consapevolezza ideologica al fondo dell’attività dell’intellettuale. Mi rendo conto che lo sbandamento paternalistico ha la possibilità di trasformarsi in una mestrina dalla penna rossa; ma forse in questo momento preferirei la maestrina dalla penna rossa alla latitanza assoluta.

C.C.: La nostra rivista guarda alla cultura come a una risorsa fondamentale per superare un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo. Quali crede siano le iniziative che il mondo teatrale universitario può proporre?

C.L.: Nel corso degli anni ho percepito una necessità che mi ha guidato e sostenuto: quella di riappropriarsi con energia della dimensione della coscienza, della consapevolezza e della ragione. Senza dubbio riconosco gli enormi disastri che la ragione ha spesso determinato nella storia occidentale; d’altra parte credo che, con presa consapevolezza dei limiti intrinseci alla ragione stessa, sia necessario tentare la costruzione di un rapporto razionale col mondo. Mi viene sempre in mente una battuta di Sanguineti: «Ragazzi, non è più tempo di sognare; è tempo di svegliarsi». La trovo una battuta folgorante: bisogna fare un esercizio di maturità e assumersi le responsabilità delle proprie scelte, alla luce di un criterio razionale e traducendo l’utopia dentro un sano realismo. Sotto questo punto di vista, credo che sia oggi necessario fornire le persone di strumenti razionali, affinché sia possibile avere la consapevolezza dei propri comportamenti. Mi piace inoltre ricordare un passaggio de La Peste di Camus in cui si afferma che ciascuno deve fare bene il proprio mestiere; perciò, pur non illudendomi che il teatro possa cambiare il mondo, è questo il campo attraverso il quale può passare il mio micro contributo, nella sua doppia declinazione di pratica e di insegnamento.

C.C.: Cosa pensa di quella classe di artisti emergenti, magari molto validi, ma che non riescono a incontrare il grande pubblico?

C.L.: La politica del sostegno e  dell’aiuto è determinante. Non posso comunque dimenticare le parole di Ronconi: «il modo migliore per aiutare i giovani non è aprir loro le porte, ma chiuderle, in modo che imparino ad aprirle a spallate». Ritengo dunque che sia importante aiutare, ma che sia ancora più importante evitare che il sostegno diventi assistenzialismo, per ostacolare ogni forma di inerzia. Dalla mia condizione di osservatore privilegiato, in quanto docente a contatto con il mondo universitario, mi accorgo che da parte dei giovani c’è un costante richiesta di tutela, di salvaguardia. Tale situazione mi colpisce perché da ragazzi inseriti in una condizione così delicata, ci si aspetterebbe in realtà una spinta doppia. In un momento storico come questo, ciò che è davvero indispensabile è avere una buona spina dorsale, una forma di determinazione. Mi accorgo, ad esempio – e lo dico fuori dai denti – che all’inizio della mia carriera mi sono trovato ad affrontare dei sacrifici che molti ragazzi di oggi non accetterebbero.

C.C.: Quali sono i suoi progetti artistici in cantiere per il futuro?

C.L.: In questi giorni stiamo lavorando ad un progetto in collaborazione con Emilia Romagna Teatro e con il Teatro di Roma, che avrà un momento iniziale a Modena, e una seconda fase di creazione a Roma. Il titolo del progetto, molto ambizioso, è Il ratto d’Europa; alla base del lavoro c’è un interrogativo rispetto alle radici dell’identità europea, ossia: siamo europei? Ci sentiamo europei? Cosa ci fa sentire tali, un legame culturale, un’esigenza economica, un piano politico? Il percorso vorrà anche indagare il peso dell’Unione Europea nella nostra quotidianità, e la distanza che i giovani sentono nei confronti di questa istituzione. Un’ulteriore riflessione verterà sul rapporto tra teatro e comunità, e si configurerà come creazione collettiva. Il progetto si svolgerà nell’arco di un anno, e vedrà l’attivazione di gruppi di lettura e di drammaturgia al fine di coinvolgere la comunità nella creazione teatrale.

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