All’Animal Social Club la sera del 27 dicembre è andato in scena uno spettacolo cineteatrale a cura di Ballrooms che intende andare oltre il semplice omaggio nei confronti di Twin Peaks. Una rivisitazione multimediale e forse postmoderna.
Twin Peaks Ballroom: Tibet, regia e montaggio video di F. Blasi, 80′
Performance a cura di: Ballrooms Cineteatrali
Con: Emiliano Brunori, Cecilia Carponi, Nicoletta Cefaly, Luca Giachi, Valeria Pinzi, Sally Van Tassel, Arpad Vincenti
Luogo: Animal Social Club
Data: 27 dicembre 2012
…(Non) è accaduto a Twin Peaks.
Le immagini dei primi minuti di Blue Velvet di David Lynch scorrono sullo sfondo della sala buia dell’Animal Social Club. Gli attori entrano in scena con delle torce. Un uomo parla di “segreti”, forse amorosi, forse indecifrabili, e nel frattempo regge uno specchio in cui una ragazza riflette la propria immagine. Sentiamo le sue urla come se fossero il balenare di un’iconoclastia personale rivolta al proprio sé. Il mostruoso del reale si confonde con i mostri della vita della mente. Chiameremo quest’istante lo strazio e a esso seguirà la sigla di Twin Peaks, il celebre telefilm dello stesso Lynch e di Mark Frost apparso sui teleschermi nel 1990.
Seguono altre scene, scelte in maniera ragionata dall’episodio 3 del telefilm, intitolato Lo Zen o la capacità di catturare un killer. Le immagini precedono la seconda performance degli attori. Due donne, entrambi danzanti, una in maniera provocante, l’altra in maniera spensierata, occupano lo spazio insieme a un uomo col cilindro e in frac. Una terza donna, che definiremo l’oracolo, si alza dal pubblico e comincia a parlare per associazioni libere quasi come fosse preda di un’estasi mistica che coinvolge anche l’uomo. La loro unione è sancita da una rosa che la donna tiene tra le mani e che toccata dall’uomo provoca in lui una trance che lo conduce a immaginare quello stesso mondo, esterno alle coordinate spazio-temporali, declamato dalla donna. La sala diviene oscura e Twin Peaks ci cattura nuovamente lo sguardo.
Passano pochi minuti e sulla sinistra della scena una donna è inginocchiata davanti a delle candele. Le voci fuori campo di due donne la invitano a fare attenzione e a evitare d’inserire oggetti metallici nelle prese della corrente. Questo è il monito e a esso segue un altro spezzone di Twin Peaks in cui Mike, l’uomo senza un braccio, ci rammemora la sottile divisione meta-fisica ed extratemporale tra il bene e il male: «Nell’oscurità di un futuro passato il mago desidera vedere. Non esiste che un’opportunità tra questo mondo e l’altro. Fuoco, cammina con me. Noi viviamo tra la gente, tu lo chiameresti un negozio conveniente. Noi ci viviamo sopra, proprio così com’è, come lo vedi tu. Anch’io sono stato toccato dall’essere infernale. Un tatuaggio sulla spalla sinistra. Ah, ma il giorno che vidi il volto di Dio, divenni un altro, e mi staccai da solo il braccio intero. Il mio nome è Mike e il suo è Bob».
L’ultima performance è il martirio. Un uomo dall’accento padronale ordina al suo “schiavo”, o più semplicemente il suo alter-ego lavoratore, di impacchettare una sorta di sposa cadavere, metafora teatrale di Laura Palmer, la ragazza nel cui volto angelico/diabolico confluivano tutti i lati peccaminosi della cittadina americana protagonista del cult di Lynch e Frost. Il sacrificio di Laura è la sua redenzione. Scorrono i titoli di coda del telefilm ed è lecito azzardare un’interpretazione.
Le performance viste sono dei veri e propri atti estetici che mirano a rielaborare liberamente, come se fossero un alzare un nuovo sipario, come anelli di congiunzione negli interstizi delle scene, la passione e la tragedia di Laura Palmer. Il debito etico ed estetico nei confronti del telefilm è volutamente manifesto nel far scorrere le immagini sullo sfondo della sala e i nativi collegamenti istituiscono un modo di rivalutare l’impronta che Twin Peaks ha lasciato, oltre la storia del cinema, in quell’angusto anfratto in cui bellezza e orrore si compenetrano.
In fondo, non-è-accaduto-solo a Twin Peaks.