1.9.8.4. – La favola di W.S.
Di Francesco Giuffré
con Giovanni Carta, Camillo Grassi, Massimiliano Mecca, Marta Nuti
Dall’8 al 20 maggio 2012
Teatro Argot Studio – Roma
In uno dei suoi più celebri romanzi, 1984., scritto nel ‘48, Orwell profetizza la catastrofe di un’umanità totalmente asservita al potere, talmente privata della sua personalità, della bellezza della diversità – che spesso si esprime con il dissenso – da divenire vuoto involucro, mero contenitore delle idee del partito, il Grande Fratello.
Francesco Giuffré, regista di 1.9.8.4. – La favola di W.S., rimane piuttosto fedele alla trama del testo e la traspone sulla scena con un’intelligenza e un acume da non sottovalutare, utilizzando artifici semplici, ma molto efficaci a livello emotivo, su una scena essenziale e strategicamente mutevole.
Sul palco, in alto, domina il grande occhio, che tutto vede e controlla, creando nello spettatore una sorta di imbarazzo, di senso di disagio.
Su un grande schermo vengono proiettate graziose immagini in bianco e nero, stile anni ’50, gremite di visi sorridenti e di persone in movimento. Seduti, davanti allo schermo, un uomo e una donna mugugnano ricordi appena udibili, intrecciati al suono di una musica leggera. I ricordi sono la nostra essenza. Poi tutto ammutolisce.
Arriva, trascinando un vecchio teatrino, un povero cristo nudo e piangente al quale basta ricevere un po’ di autorità per trasformarsi in un clown arrogante e cinico, ridicolo nel suo ruolo di dominatore: una sorta di burattinaio a servizio dei potenti, che muove le fila degli iscritti al Partito. Richiama alla mente l’arroganza del politico ignorante. Ieri come oggi.
I membri applaudono, gridano di rabbia (solo 2 minuti, cronometrati, di aggressivi gesti al rallenty), pregano, lavorano a comando, in una sincronia perfetta di movimenti e suoni, come dei robot, degli automi mirabilmente addestrati a essere servi, passivi strumenti a servizio della casta, che sguazza nell’eterno disprezzo dei prolet, la massa. Il loro linguaggio è fatto di slogan (La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza!). Niente che abbia un’anima, nemmeno la lingua, deve rimanere in vita. Occorre ridurre al massimo la psicologia del pensiero. Ovviamente, lo psico-reato è il peggior crimine che si possa immaginare.
Winston lavora al Ministero della Verità, reparto Mistificazione della Realtà. Di giorno censura e altera i fatti, per farli corrispondere a quelli dettati dal Partito. Tuttavia, dentro di sé, la mente non si è spenta, è una lanterna fioca che non vuole morire. Il suo cuore palpita per la bella Giulia. Ha ancora dei ricordi, seppur vaghi e orribili, della sua famiglia d’origine.
Ma cosa può l’amore di fronte all’annientamento delle coscienze? Potrà mai un principio salvare l’umanità da questo inganno? Il complotto non può avere spazio nel progetto utopistico di una società senza cervello, senza linguaggio, senza corpo.
La stanza 101, quella della tortura, ci lascia intuire che per la libertà c’è sempre un caro prezzo da pagare, oggi come allora. Ci aggrappiamo tenacemente al pensiero di Winston, nella speranza che la previsione di Orwell non si avveri, non si sia già avverata. Non possono entrare dentro di te. Se riusciamo a combattere per salvare la nostra dignità, saremo riusciti a sconfiggerli.