In occasione della festa della donna, proponiamo l’intervista ad Alessandro Benetti, architetto e fotografo che ha ritratto in 14 scatti alcune donne della sua vita. Benetti coglie la loro personalità grazie al legame intimo instaurato con ognuna, fissando un momento in comune ma proiettandole in una dimensione totalmente atemporale.
Per questa sua attenzione alle sfaccettature del mondo al femminile chiediamo al fotografo le motivazioni di questo progetto fotografico che dimostra una sensibilità e una capacità di rappresentazione senza artifizi difficile da trovare: una fotografia capace ma sincera ed emozionale, finalmente.
1) Perché ti sei avvicinato alla fotografia? Quali sono stati i tuo primi passi, la tua formazione?
Alessandro Benetti: La passione per la fotografia mi è stata trasmessa da mio padre e mi accompagna fin dall’infanzia. D’altra parte, ho studiato fotografia solo per un anno, per di più all’interno di una scuola di architettura. Di conseguenza, sono sostanzialmente un autodidatta dell’intero processo di creazione dell’oggetto fotografico.
2) Come è nata l’idea di questo tema e perché esordire proprio con questo?
A.B.: Il momento della scelta del tema della mia prima esposizione è stata l’occasione per una prima, esitante, retrospettiva (tutta personale) sul mio percorso fotografico fino a questo momento. Ripercorrendo le tante fotografie realizzate fino ad ora, il tema del ritratto femminile è emerso sia per quantità degli scatti che per coerenza della serie che se ne poteva ricavare. Tutte le ragazze sono riprese in pose e con sguardi tali da trasmettere una sensazione di sospensione, di mancanza di una temporalità. Il loro volto, e talvolta il loro corpo, sono il fulcro espressivo dello scatto e l’elemento ordinatore della composizione spaziale. Infatti, se le ragazze sembrano sospese al di fuori dal tempo, sono al contrario saldamente ancorate ad uno “spazio”. Non tanto allo spazio in cui sono collocate nella realtà, quanto piuttosto alla configurazione spaziale astratta propria dello scatto. Quest’ultimo è solcato da linee di forza spesso molto marcate, a volte ortogonali a volte oblique, che decompongono lo sfondo in più frammenti: la ricomposizione degli stessi all’interno della cornice conferisce al background un carattere pressoché bidimensionale.
3) Hanno un ruolo queste donne nella tua vita?
A.B.: Conosco tutte queste ragazze e con alcune di loro ho condiviso momenti importanti. La complicità che mi lega a ciascuna delle persone ritratte nelle mie fotografie è stata molto importante al momento dello scatto, soprattutto per ottenere il livello d’intensità espressiva che desideravo. Preferisco fotografare persone che conosco perché la fotografia, per me, è innanzitutto un prezioso ricordo di qualcuno in un preciso momento.
4) Perché l’utilizzo di una macchina analogica in questo mondo dalla tecnologia facile?
A.B.: Ho cominciato ad utilizzare un apparecchio analogico un paio di anni fa. Ho ereditato la macchina fotografica di mio padre, che nel frattempo era passato al digitale. Confesso che, inizialmente, mi spingeva soprattutto la fascinazione per l’oggetto vintage in sé stesso, con il suo funzionamento un po’ farraginoso, lontano dall’efficienza e dalla “facilità” degli apparecchi digitali di oggi. Col tempo è venuta la passione per il procedimento di sviluppo del rullino e di stampa dell’immagine: la soddisfazione nel maneggiare (e manipolare) la fotografia dallo scatto fino alla riproduzione su carta è stata determinante nel convincermi ad abbandonare il digitale senza troppi rimpianti. Molti liquidano la scelta di fare della fotografia analogica oggi come un’irrazionale concessione alla nostalgia: ma le fotografie, esse stesse, non sono forse quegli “oggetti melanconici” di cui parlava Susan Sontag?