A dispetto della scelta del vivace titolo Alcesti mon amour, che lascerebbe supporre un rifacimento singolare della più antica tragedia (o presunta tale) di Euripide, Walter Pagliaro ha deciso di rimanere fedele al testo classico. I temi affrontati sono di enorme spessore – vita, morte, amore, sacrificio – e rappresentano gli ingredienti principali di un’indagine dell’animo umano, realizzata attraverso paradigmi viventi nelle vesti di attori, applicabile a ogni epoca e a ogni luogo.
La struttura scenica, con le dovute modernizzazioni, è essenziale e rispettosa delle tradizioni. I personaggi, con tanto di maschere – ma di una fattura espressionista – hanno vesti colorate che contrastano con la semi-rigidità dei volti e avvolgono corpi chiamati ad agire al massimo della loro espressività. L’incedere tremebondo di Apollo che, sigaretta alla mano, ha un ruolo di prologo parlante, richiama la fiacchezza delle membra di Alcesti, le gambe vacillanti di Eracle ubriaco, il trascinarsi disperato di Admeto, re di Fere, che vede morire la moglie sotto i suoi occhi. Davanti a lui. Per lui. La regina Alcesti, infatti, si immola per allontanare Thanatos dal marito e regalare allo sposo altri giorni di sole. Compie un gesto guardato con terrore dagli stessi genitori del re.
Questo atto di perdita di sé non è da leggere in un’ottica romantica, che sublimerebbe l’evento al punto da farne dimenticare la drammaticità, ma è l’essenza dello strazio e del combattimento. La donna, in punto di morte, è presa da convulsioni e isterismi che appaiono in netto contrasto con quella che dovrebbe essere una scelta consapevole e decisa.
I rapporti tra i personaggi, che si confrontano generalmente a gruppi di due, sono intricati e complessi, come nella realtà. Non a caso, nel rispetto delle antiche regole, ognuno di loro è metafora di una dimensione interiore che abbraccia infinite nuance della psiche umana, spesso incomprensibili e contraddittorie. Per questa ragione, in alcuni passaggi della rappresentazione, l’ambiguità e il dubbio prendono il sopravvento. Alcesti attraversa l’Ade con cuore inquieto, straziata dalla visione di un burbero Caronte; Admeto si strugge, ma non fa nulla per impedire che questo estremo atto di devozione avvenga; Eracle, l’ospite riconoscente che vuole sdebitarsi compiendo il miracolo della resurrezione della donna – richiamandola dall’aldilà -, da beone irriverente si trasforma in spirito fin troppo magnanimo. Molto più lineari le figure dei due corifei che mostrano devoto rispetto e delicata comprensione verso la famiglia colpita dal lutto e, in generale, verso l’umana sofferenza. A loro, il ruolo di anime consolatorie oltre che quello di voci narranti.
La figura più enigmatica rimane Alcesti, restituita alla vita più morta di prima: un fantoccio privo di spirito che porterebbe ad affermare che chi è morto non è e non sarà mai più niente. Cosa simboleggia questo surreale incontro, un matrimonio ricostruito o l’abbraccio della morte? Chi è questa sagoma spettrale dalla consistenza di una bambola di pezza? Allo spettatore la libertà di interpretare a modo proprio il senso della storia e dei personaggi.
Il regista sembra mostrarsi scettico di fronte a un’idea di rinascita e si diverte a confondere le carte in tavola scambiando alcune battute degli attori, forse per mostrare la fragilità dell’identità umana e il mistero degli accadimenti che spesso la sovrastano. Benché privato di un palese lieto fine, lo spettatore apprezza il gusto dell’immersione nella profondità della drammaturgia classica che provoca, punzecchia, scomoda e, da secoli, stimola la riflessione sull’uomo.
ALCESTI MON AMOUR
da Euripide
Drammaturgia e regia Walter Pagliaro
Costumi e maschere Giuseppe Andolfo
Musiche Germano Mazzocchetti
Con Micaela Esdra, Luigi Ottoni, Marina Locchi, Diego Florio
Dal 24 al 29 gennaio 2012
Teatro India – Roma