Artista: Bertille Bak Titolo: Radice Luogo: The Gallery Apart, Via Francesco Negri 43 20 febbraio – 23 aprile 2016
È possibile riuscire a trasformare lo spazio di una galleria in un autentico luogo di condivisione culturale e sociale? Un luogo in cui storia, politica, memoria collettiva e privata si legano indissolubilmente, coinvolgendo il visitatore in una dimensione meta-spaziale non appena varcata la porta d’ingresso? A The Gallery Apart tutto questo è possibile grazie al lavoro appassionato, fedele e puntuale della giovane artista francese Bertille Bak (Arras, 1983). Dopo la collettiva “La voce delle immagini” tenutasi a Venezia presso Palazzo Grassi nel 2012, Bak presenta qui a Roma la sua prima personale italiana “Radice”, dal titolo emblematico e dai molteplici richiami semantici. Quattro installazioni e cinque video occupano i due piani della galleria, coprendo un arco temporale che va dal 2007 al 2015 e che vede l’artista occupata in diversi lavori, aventi tutti come comun denominatore la storia, la memoria collettiva e l’identità sociale. La poetica artistica di Bertille Bak si lega alla sua volontà di scoprire, conoscere e radicarsi, appunto, in comunità minori con cui instaura una relazione per lunghi periodi, quotidianamente alimentata e che si sviluppa in un progetto finale incentrato sull’idea di identità. I video documentari così realizzati evocano situazioni collettive in cui viene magistralmente raccontata la vita di quella comunità con cui l’artista entra intimamente in contatto. Bertille Bak porta avanti il suo lavoro immergendo ogni volta se stessa in differenti realtà sociali, in microsocietà di cui riesce a rappresentare problematiche, situazioni condivise e stilemi culturali attraverso un senso dell’umorismo delicato e sensibile. Così accade anche per la comunità di minatori residente a Barlin, città natale della sua famiglia e villaggio minerario del nord della Francia tristemente destinato ad essere in parte demolito. Se quei residenti non riusciranno a riscattare la propria casa incorreranno nello sfratto e dunque nell’esodo obbligato verso altri villaggi e verso nuove identità da costruire. Barlin diviene – per questa sua condizione e per il legame familiare che Bak intrattiene col villaggio e con i suoi abitanti – luogo centrale di alcuni sui lavori (Fair le mur, 2008; T’as de beaux vieux, tu sais…, 2007; Court n.1, 2 e 3, 2007) nati per raccontarne l’identità sociale e per denunciare le ingiustizie inesorabilmente subite dai cittadini.
Nel video “Faire le mur” – dal titolo polivalente che allude sia al realizzare concretamente un muro sia al tirarlo su metaforicamente, nel senso di fare opposizione – uomini, donne e bambini divengono così attori perfetti per inscenare, vestendo i panni di loro stessi, una rivolta di mattoni basata sulla strategia semplice e diretta del “fare muro”. Tutto il villaggio di minatori – nonni dell’artista compresi – è unito nel tirare mattoni contro la ruspa, simbolo per eccellenza di distruzione. All’interno di una protesta intelligente e umoristica quale quella messa appunto dagli abitanti di Barlin, durante il video si colgono altri elementi fondativi dell’identità collettiva del villaggio che alludono, per esempio, alle tradizioni artigianali del tessere arazzi in gruppo, prerogativa del mondo femminile; o ancora, alla dimensione comunitaria, per cui all’inizio del video la nonna di Bertille Bak racconta chi consegnava i giornali porta a porta e chi la carne e come quindi la vita scorresse in maniera semplice lungo le strade del villaggio, senza l’ombra delle demolizioni che sarebbero poi divenute realtà per molti. Questa questione che aleggia in tutto il video fino alla fine, ma che non viene mai espressa in maniera commiserabile, è resa esplicita in una delle ultime sequenze, dove una vera e propria diaspora è messa abilmente in scena. Diverse persone con fagotti e valigie si mettono in cammino seguiti dalle proprie case di mattoni che vengono trasportate a chiusura della fila umana, come a voler significare che là dove è l’uomo è anche la sua casa, proprio ora che essa dovrà metaforicamente traslarsi altrove, ora che bisognerà ricostituire il terreno fertile lì dove la famiglia possa mettere nuove radici. Nelle opere aventi al centro della narrazione Barlin e la sua comunità, l’artista effettua un lavoro di recupero anche della propria memoria privata – i suoi nonni compaiono in più di un video – legata ai luoghi a lei conosciuti ed entrati già a far parte, nel tempo, del suo vissuto. In quest’ottica, intima e familiare per quanto bizzarra, si sviluppa la scena di “T’as de beaux vieux, tu sais…” in cui Bertille Bak si ritrova in cucina a spennare galline insieme ai suoi nonni. Quasi un’istantanea ripresa da una quotidianità fuori dal tempo, che sembra palesare con acuta ilarità e sensibilità le origini sociali e culturali dell’artista stessa. Ricordi privati si mescolano alla realtà del villaggio per affermare ancora una volta, e con la delicatezza che contraddistingue il lavoro dell’artista, come ognuno di noi sia il prodotto di più realtà a confronto: la propria, individuale, e quella collettiva del luogo e della comunità in cui si è radicati e a cui, anche se sradicati, si continua in un certo qual modo ad appartenere. Tutti siamo il riflesso anche dell’altro che è intorno a noi e rispetto al quale ci connotiamo in quanto animali sociali. La ricerca quindi in cui è impegnata Bertille Bak è una ricerca che coinvolge ognuno di noi: anche se quella che appare ai nostri occhi non è la nostra personale storia, come esseri umani sentiamo che qualcosa di ancestrale ci lega all’altro e ci fa sentire a lui solidale, nella risata o nella riflessione critica a cui l’arte di Bertille Bak ci muove. Nel percorso all’interno del quale ci guida l’artista possiamo perfino toccare gli oggetti della memoria, delle vecchie porte provenienti dalle case di Barlin allestite in piccoli gruppi, vicine le une con le altre, tutte diverse, con ancora i chiavistelli attaccati. Logorate dal tempo, usurate, con la polvere nelle serrature, queste porte possono essere sfogliate come fossero pagine di un libro che raccontano una storia, come un archivio che testimonia un tempo e un luogo, un quotidiano, che non sono più.
Così come le porte raccontano un vissuto, anche gli arazzi realizzati a mano, rappresentanti diversi soggetti artistici ben noti, sono eseguiti dalle donne di Barlin e dai villaggi circostanti attraverso diverse tecniche, ognuna tipica del luogo di provenienza. Ciò che interessa mostrare a Bertille Bak non è tanto il disegno realizzato, quanto il retro dei singoli arazzi per renderne visibile la lavorazione, poiché ogni piccola comunità è un microcosmo a sé rispetto alla comunità vicina, con delle sue caratteristiche e diversità e un proprio modo di pensare le tradizioni culturali, come per esempio quella del tessere. Lo studio che qui conduce Bak e i risultati a cui arriva sfruttano il linguaggio artistico per documentare antropologicamente le abitudini di alcune microsocietà e i fondamenti culturali della loro identità collettiva. Lavoro questo, più che da artista, da etnologa, com’è è stata definita.
Appena varcato l’ingresso della galleria si viene sorpresi invece dall’interessante installazione “Untitled” (2014-2015), costituita da più opere numerate. Filari di disegni realizzati a mano con una bic nera si stagliano davanti agli occhi e invitano ad avvicinarsi per vedere meglio.
La serialità del soggetto, la ripetizione del segno, la rigorosità del lavoro: immagini in b/n di case in mattoni che si susseguono una dopo l’altra sotto i nostri occhi. E senza neanche accorgersene si è coinvolti in uno spazio urbano costituito da immaginifiche strade che corrono parallele intorno a noi e in cui possiamo passeggiare. Strisce di carta lunghe quanto la lunghezza originaria delle vie rappresentate, in cui a primo acchito le case possono sembrare tutte uguali. In realtà sussistono delle diversità grafiche che mostrano come ci siano abitazioni tenute meglio di altre, più curate, con le tende alle finestre o le antenne sul tetto. Tutte quante però, oltre che semplici disegni, sono testimonianza sociale, antropologica e storica di case demolite, di luoghi che non esistono più ma che nella memoria sono radicati e ancora esistenti. Un archivio per immagini meticolosamente realizzate, una sorta di città fantasma che può ancora animarsi e vivere – grazie all’acuta riflessione artistica di Bertille Bak – nel momento in cui la memoria di un luogo e di una comunità incontra il presente storico di chi la osserva, generando così nuovi significati e creando una connessione con persone di differenti culture e status sociale, al di là dello spazio e del tempo.