Gianpaolo Marcucci, fondatore di Pensieri di Cartapesta, ha promosso il concetto di critica costruttiva, ritenendo il modo tradizionale di fare critica obsoleto e dannoso per la cultura stessa.
I. «…Sai, oramai sono impegnato, devo scrivere un libro all’anno per il mio editore». Così un giorno ti si rivolse uno scrittore; cosa ti suscitò la sua rivelazione?
G.M. Lì per lì mi apparve comprensibile: divenuto noto per il suo ultimo testo di successo, lui e le persone che avevano creduto in lui, riponevano molte aspettative nel suo futuro di scrittore professionista. Eppure più tardi ripensandoci accuratamente, mi accorsi che qualcosa in quella frase non tornava. Le parole artista e professionista mi apparvero d’un tratto in forte contrasto. Cominciai a pormi delle questioni: si può essere un artista di professione? Cosa vuol dire? Come ci si diventa? Si è poi dopo artisti solo fino alla pensione? Qualsiasi prodotto di un artista di professione è in quanto tale un prodotto artistico? E se una persona un giorno produce un’opera d’arte, da quel giorno in poi, sarà dunque considerato artistico qualsiasi suo prodotto futuro?
2. La tua riflessione si è incentrata dunque sul ruolo dell’artista e sulla questione del dovere nella produzione dell’arte.
G.M. Esattamente. Un’opera d’arte è qualcosa di spontaneo, una fotografia di un momento di contatto profondo tra l’uomo e la sensibilità. La sensibilità, non la sua sensibilità, perché la sensibilità, come l’arte, non appartiene a qualcuno, non appartiene affatto. Esiste a prescindere dalla mia esistenza, dalla mia capacità di coglierla. La sensibilità può essere percepita da tutti, non solo da alcune persone magari più colte, non ha niente a che vedere con l’intelletto e non può essere “fermata” in alcun luogo. Come si può decidere o sforzarsi di creare questo contatto? Pianificarlo? Come si può dover scrivere un libro, un album, uno spettacolo? Certo questo meccanismo esiste, non lo si può negare, ma riconosciuto ciò, è a quel punto di arte che si sta parlando? O forse non c’è arte dove non c’è libertà e non c’è libertà dove c’è forzatura?
3. A cosa conduce allora questo meccanismo?
G.M. Facciamo un esempio. Ho scritto una bella canzone, una canzone vera, artistica; per questo subito mi darò l’etichetta di cantautore e cercherò in tutti i modi di scriverne altre, e poi altre ancora. Se un giorno incontrerò difficoltà nel farlo, mi dirò che è il momento di vuoto dell’artista, che devo pazientare. Così nascono i gruppi, i registi, gli scrittori e il pensiero è placato dalla coerenza. Ma l’arte non è coerenza, è tutto il contrario: è fuori schema, è sorpresa, è nuovo.
4. A quali conclusioni sei giunto?
G.M. Non sono giunto a conclusioni, ma forse si potrebbe individuare un confine tra l’arte, la manifestazione della sensibilità, ogni volta nuova e dinamica e i voli pindarici dell’intellettualismo e del pensiero, sterili imitazioni, elaborazioni di dati in memoria, libri di cui è rimasto solo il titolo, peraltro incomprensibile. La carriera, il lavoro, il denaro, il successo, la fama, l’ego, il possesso: l’arte per il pensiero non è diversa dal resto. Se esiste un processo differente da questo non lo so ancora, ma immagino: quanto sarebbe bello se ci fosse qualcuno in grado di regalare la propria esperienza di sensibilità senza voler nulla in cambio, qualcuno che anzichè trincerarsi dietro l’egoistica concezione di possesso della propria arte e di identificazione in un ruolo inesistente, fosse, senza pretese di paternità, semplicemente capace di buttare lì qualcosa e andare via?