In concorso
Regia: Paolo Sorrentino
Paese: Italia, Francia
Anno: 2013
Durata: 142 min.
Ed è finalmente arrivato l’unico film italiano in concorso qui a Cannes 66. La grande bellezza di Paolo Sorrentino era senza dubbio tra i titoli più attesi, almeno per la stampa di casa nostra. Anche perché già i trailer circolati nelle ultime settimane, con quei sinuosi movimenti di macchina a cogliere la Roma più segreta, bella e spaventosa, preannunciavano, da soli, l’inevitabilità del capolavoro. Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire. Perché se Sorrentino dà ancora una volta prova della sua innegabile abilità tecnica, mostra, d’altro canto, quanto le sue storie e i suoi personaggi non riescano più a prender vita, quasi fossero soffocati dalla solita deformazione grottesca a cui sono sottoposti, abitudine che ha radici lontane nel cinema italiano.
Al centro de La grande bellezza c’è il personaggio di Jep Gambardella, interpretato da Toni Servillo, che dopo la parentesi di This Must Be the Place, torna a dar volto al cinema di Sorrentino, quasi il suo luogo naturale. Gambardella è un intellettuale viveur, protagonista indiscusso dei salotti romani. Guadagna da vivere come opinionista, giornalista di costume e critico teatrale, ma ha un passato da romanziere, vocazione che non è più riuscito a portare avanti. È un cinico disilluso, ormai abituato al vuoto mostruoso del mondo che lo circonda, persino a suo perfetto agio in quelle notti romane di arrivisti, pseudo intellettuali, sedicenti artisti e biechi approfittatori. Però è ancora capace di distinguere, di commuoversi, di riconoscere ‘le belle persone’, e di capire il suo fallimento profondo, la sua incapacità di arrivare alla grande bellezza. O al nulla, come sognava Flaubert.
È chiaro che la scrittura di Sorrentino e Umberto Contarello guarda in maniera devota a La dolce vita di Fellini. Riaggiorna le situazioni, ma il mondo e il suo umore malato sembra essere lo stesso. Roma non è più cambiata, come fosse seppellita dalla sua storia. E Gambardella è la versione invecchiata di Marcello Rubini, un uomo perso. Ma ne La dolce vita l’urgenza morale non è mai annebbiata dall’estetica né dalla propensione alla stilizzazione grottesca (da cui Fellini non è certo esente). Qui tutto perde forza, ridotto a un mostruoso teatro di maschere, nani e ballerine. A Sorrentino non interessano tanto le persone, quanto i tipi, le figure. Eppure non rinuncia alle tentazioni del lirismo. E perciò supplisce alla mancanza di vita del mondo che racconta con la meraviglia estetica. Tutto funziona a dovere, la fotografia sempre splendida di Luca Bigazzi, le musiche di Lele Marchitelli. E Roma è davvero stupenda. Ma le emozioni durano un istante fugace e passano solo attraverso la forzata affermazione dello stile, che per di più, stavolta, pare andare in contraddizione con l’umore del film, con quell’ambizione di raccontare il nulla e con quell’esigenza di ‘povertà’ e semplicità. Sì Sorrentino, in fondo, si compiace. E questo può anche conquistare. Chissá che non riesca a portarsi a casa qualche premio.