Uno sguardo su Un certain regard, una sezione che si conferma un luogo di ricerca.
La sezione Un certain regard si conferma il luogo della ricerca. Dell’azzardo magari, ma anche del coraggio di un grande Festival di non nascondersi dietro le passerelle e le celebrità, per aprirsi alla contaminazione, ai rischi della sperimentazione e alle vertigini della contemporaneità. Certo, neanche qui mancano i grandi nomi, dall’apertura affidata a Sofia Coppola con The Bling Ring, sino a Claire Denis (Les salauds) e al divo/autore del nuovo millennio, James Franco, in aperto confronto con William Faulkner (As I Lay Dying). Ma si tratta, in ogni caso, di sguardi non convenzionali, capaci di tracciare percorsi assolutamente personali, oltre le mode. E tra le proposte del programma, si incontrano dei titoli importanti, delle folgorazioni che, magari, avrebbero meritato anche un posto d’onore in concorso. Due film su tutti, provenienti entrambi dal sud est asiatico, da due autori unici per coerenza e radicalità: L’image manquante di Rithy Panh e Norte, the End of the History di Lav Diaz. Due film, tra l’altro, accomunati dalla lucida visione politica e dalla chiara tensione morale.
Rithy Panh continua la sua opera di ricostruzione e comprensione del tragico passato del suo paese, la Cambogia, segnato dagli anni terribili del regime degli khmer rossi. E cerca di trovare quel filo che collega la sua esperienza personale, le difficoltà della sua famiglia perseguitata, i drammi della sua infanzia e adolescenza, con la terribile vicenda collettiva di un popolo espropriato di qualsiasi libertà. Ma, soprattutto, espropriato del suo passato, della capacità stessa di ricordare e raccontare la propria storia. Infatti ciò con cui è costretto a fare i conti Panh è la mancanza di materiali di repertorio, di immagini che possano testimoniare e ricostruire a fondo quanto successo. E perciò, non può far altro che tentare di sopperire a quest’image manquante, ricorrendo a dei modellini in terracotta, delle bamboline ‘inespressive’, attraverso cui ‘reinventare’ le scene a cui ha assistito, quelle di cui è venuto a conoscenza.
Se Rithy Panh racconta l’assenza del passato, Lav Diaz predice, quasi a seguire lo stesso filo, l’assenza di futuro. La fine della Storia, come suggerisce lo stesso titolo del suo film, un’altra opera fluviale (più di quattro ore), che traccia le coordinate di una crisi politica, morale e culturale che investe un paese, le Filippine, e un mondo intero. Diaz si muove tra città e campagna, tra studenti, intellettuali, artisti e la gente comune. Tutti afflitti dalle fatiche della quotidianità, dalla dittatura del danaro. Lo spunto di partenza guarda a Delitto e castigo di Dostoevskij, con un giovane studente che, in piena consapevolezza, decide di uccidere una squallida usuraia. Viene incolpato e imprigionato un povero invalido, costretto a lasciare la moglie a occuparsi da sola della famiglia. Le storie s’intrecciano, ma Lav Diaz abbandona ben presto i percorsi del plot per andare verso l’apologo e la parabola. La concretezza del realismo si apre a fantasie apocalittiche. Ma tra le sbarre di un mondo carcere e la libertà dei sogni di fuga, il film non sembra trovare speranza, se non in un atto di volontà dello sguardo e dello spirito.