regia Cristian Mungiu
con Adrian Titieni, Lia Bugnar, Vlad Ivanov, Maria Dragus, Malina Manovici
produzione Mobra Films
distribuzione Le PacteCompétition – Festival de Cannes 2016
Dopo 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni e Oltre le colline, Cristian Mungiu prosegue con Bacalaureat la sua personalissima indagine sui meccanismi di funzionamento di una società oppressiva e alienante. E in questo senso, a guardare i suoi film, non pare esserci scarto reale tra la Romania dell’epoca comunista e quella dei nostri giorni. Un mondo dominato da apparati di potere tanto penetranti quanto ottusi, tanto capillari quanto corrotti. La burocrazia, la polizia, la politica, la religione. La norma e la consuetudine. Tra leggi scritte e regole di comportamento codificate, l’individuo è stretto in una morsa.
La storia di Romeo è esemplare. Ossessionato dall’idea di mandare la figlia Eliza a studiare in un college in Inghilterra, non si fa scrupolo di giocare sporco, pur di garantirle il voto di diploma necessario per ottenere la borsa di studio. Tutto parte dal tentativo di violenza subito dalla ragazza, alla vigilia dell’esame. Un evento scioccante, che rischia di mandare in frantumi tutti i progetti. Romeo decide di far fronte all’emergenza. E, allora, parla con professori, poliziotti, presidenti di commissione, loschi burocrati. Ottiene promesse vaghe e in cambio promette favori. In breve rimane invischiato in una squallida rete di piccoli e grandi compromessi. Ogni sua azione è la tappa di una progressiva discesa negli inferi, che nega nel concreto tutto ciò in cui ha sempre creduto e che ha sempre predicato alla figlia: l’onestà e la libertà, il rifiuto della corruzione, l’idea meritocratica del successo personale, al di fuori delle meschinerie di un sistema clientelare soffocante. Alla fine non è più possibile individuare un sistema di valori capace di distinguere il singolo dall’insieme. Tutto diventa piatto, senza neanche più la prospettiva delle giovani generazioni, anch’esse irrimediabilmente educate al compromesso.
Mungiu non ragiona per teoremi e dimostrazioni. Segue i suoi personaggi con l’impassibilità dei suoi piano sequenza e ne fa emergere i caratteri e i drammi dalle semplici azioni e comportamenti. Le sue immagini sembrano avere un’indifferente trasparenza verso reale, ma quello che trovano, dinanzi a sé, è un mondo opaco, che assorbe ogni luce. Perché ogni film porta all’estreme conseguenze l’assurdità del quotidiano, fino a mostrarne i limiti più aberranti, i punti di impatto e di rottura, le ricadute immediate nella pratica concreta. Il cinema di Mungiu procede per accumulo, scena dopo scena. Lavora a partire da una situazione che, a mano a mano che si svolge l’azione, si fa più critica, fino a stringersi come una ragnatela intorno ai protagonisti, limitandone le possibilità di scelta, di analisi e di intervento. Alla fine, nel momento in cui si delinea per intero il quadro “sociale”, l’universo del racconto, si scopre il definitivo annullamento dello spazio di libertà individuale. E, nell’apparente impassibilità del racconto, si fa strada un senso di inquietudine minacciosa. Una pietra che manda in frantumi una finestra, lo squillare ripetuto dei telefoni. Tutti segni di una realtà che assomiglia a una congiura.