Il regno d’inverno, di Nuri Bilge Ceylan, Turchia-Francia-Germania, 196′ Produzione: Zeynofilm, Bredok Filmproduction, Memento Films Production Distribuzione: Parthenos In uscita il 9 ottobre
“Letargo” sarebbe forse il titolo più adatto all’ultimo film di Ceylan, nonché la traduzione letterale di Kış Uykusu. “Letargo” è sicuramente lo stato in cui più e più volte si rischia di cadere durante la durata del film – tre ore e sedici minuti – cullati dalla verbosità poco letargica, ma decisamente soporifera, intessuta dai botta e risposta di un pugno di personaggi che compaiono sullo schermo in pochi originali campi e controcampi, mentre la scenografia punteggiata di specchi e riflessi cerca di imbrogliarci formalmente, tentando di persuaderci che una qualche tragedia dell’auto-illusione, del doppio e dell’inganno si stia svolgendo davanti ai nostri occhi.
Ceylan, tranne alcuni esperimenti che ha sempre utilizzato come trampolino di lancio per connotare più personalmente il suo stile, è noto per le trame narrativamente ridotte all’osso, ma dal profondo respiro. Uno stile registico altamente consapevole, unito alla capacità di sintetizzare il meglio della tradizione cinematrografica sociale turca, i grandi maestri della cinematografia europea – primo tra tutti, Tarkovskij – e la grande narrativa russa – d’obbligo il riferimento evidente a Checov -, ha contrassegnato le sue evoluzioni, film dopo film, in un inarrestabile auto-superamento. L’ultimo capolavoro, Bir Zamanlar Anadolu’da (2011), rappresenta il culmine della sua evoluzione: in questo lavoro Ceylan riesce abilmente a trasformare, strappandone le leggi, un procedural movie in una riflessione esistenziale che, impastando acutamente pittura di luce, movimento paesaggistico e dialogo quotidiano, si carica anche di un significato allegoricamente politico.
Lo stile pulito, quasi minimalista, è completamente stravolto nel Regno d’Inverno in cui assistiamo a una “settimana di fuoco” di un facoltoso proprietario dell’Hotel Otello, incastonato in un meraviglioso villaggio della Cappadocia. Pochi turisti punteggiano le giornate di lavoro, lasciando al signorotto del paese tutto il tempo necessario per torturare con articoli e chiacchiere la sorella divorziata sulla rotta del pentimento e la giovane moglie ancora più annoiata di lui. Conversazioni che vorrebbero essere su temi capitali (la resistenza o meno al male, la necessità di transvalutare i valori, il problema dell’ingiustizia sociale, il dovere della carità, solo per menzionarne alcuni) sono masticate e sputate fuori da questi personaggi in quello che vorrebbe essere, probabilmente, un tentativo di ridicolizzare il vuoto intellettualismo che maschera le relazioni di potere avvelenando i rapporti intersoggetivi nella borghesia; ma, come dicono e ribadiscono svenevolmente i personaggi stessi: la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni e il film finisce per assomigliare a un banale sfoggio di vuoto intellettualismo.
La regia stessa è frustrata, compressa nelle regole della resa dei dialoghi, mentre un susseguirsi di zoomate kitch cerca in qualche modo di nascondere la banalità del lavoro di montaggio e la mancanza di idee. La composizione e l’ottimo lavoro sull’immagine traspaiono in poche scene, ovvero nel momento in cui il regista esce dalle case-caverne per indugiare sul meraviglioso e inquietante paesaggio che fa da sfondo alla narrazione, lasciandogli tuttavia solo il ruolo di decorazione silente: un mero cameo. La colonna sonora, da sempre maniacalmente curata dal regista, si abbandona a barocche musiche classiche che dovrebbero sottolineare i momenti di tensione; e il montaggio audio forzato contribuisce alla sensazione di macchinosità e raffazonatura che si prova guardando questo piccolo regno che vorrebbe essere shakesperiano. Un finale in voice-over, con una dichiarazione d’amore che sfocia nel masochismo, fa il resto.
Parliamoci chiaro: questo è ancora un buon film, un film godibile rispetto alla media; un film drammatico – perché drammatica è la vita umana – e che non rinuncia a qualche tocco di humour qui e lì. Ma non è sicuramente un film all’altezza dello standard fissato da Ceylan nell’arco della sua carriera.