con Chiara Cardea e Silvia Mercuriati
da un’idea di Chiara Cardea e Mariza Petrovic
regia Chiara Cardea
costumi Daniele Cristina
foto di scena Sara D’Incalci
scene e luci Lidia Hamer
immagine di locandina Chiara e Mariza
calligrafia e cartonagge Nicola Pannofino e Roberta Pibiri
12 giugno 2016, Teatro Argot Studio, Roma
In una scatola chiusa, senza finestre e con il doppio scotch alle porte, con travi che impediscono l’entrata e l’uscita di tutto e tutti esclusi quei personaggi e quelle influenze “idolatriche” che le due protagoniste del lavoro – Chiara Cardea e Silvia Mercuriati – continuano a mantenere come saldi punti di riferimento. Manca l’aria di cui un ambiente ha bisogno, di cui si sente la necessità per non arrancare: siamo in un bunker serrato a chiusura stagna.
Queste due figure cercano a tutti i costi di salvarsi da quello che è lo sfacelo sempre più evidente del mondo esterno, rinchiudendosi all’interno del loro guscio per non correre il rischio di farsi infettare da quello che accade al di fuori della loro zona salva. In questo luogo protetto coltivano indisturbate ciò che conoscono e che sanno le farà stare bene, il tutto scandito da piccoli gesti quotidiani come: pettinarsi i capelli, sistemarsi gli abiti sgualciti, colorarsi le guance di rosso.
Lo spazio scenico mostra la vita delle due interpreti, facendo osservare al pubblico dall’interno/esterno le abitudini delle protagoniste. Dal prendersi cura di sé, al pregare un mausoleo/cinerario di cartone con ritagli di giornale rappresentanti grandi personaggi storici – da Montale ad Audrey Hepburn – ed esattamente come si faceva nel ‘300 con le pale d’altare, i santi e le loro gesta vengono tenuti insieme – per essere ammirati ed adorati – da mastodontiche tavole di legno dipinte in questo caso, di fragilissimo cartone.
Irma e Nora vivono in un minuscolo spazio claustrofobico che si regge sull’abitudine e su quei gesti che conoscono e che le rassicurano – o almeno così credono -, che le fanno sentire amate, che danno loro l’illusione di muoversi nella giusta direzione, quella del controllo e del “fare bene le cose”. Il comportamento umano è ovviamente molto vario ma se un individuo decide di annientare ogni sfumatura caratteriale istintiva e più pura a favore del comune codice di comportamento etico è inevitabile che ci sarà una rottura, un’esplosione.
La regia fruibile e diretta ha reso la messa in scena molto familiare senza quella distanza emotiva che a volte è presente fra pubblico ed interpreti. Questo è stato possibile anche grazie alla scelta registica di far colloquiare le interpreti fra loro così come con gli spettatori in sala. Le luci pulite ed essenziali hanno mantenuto il focus sull’intero spazio scenico anche nei momenti in cui si volevano mettere in risalto alcuni appuntamenti di regia. L’idea di spazio/guscio non cessa mai di esserci anche grazie all’illuminazione. ben pensata per creare le atmosfere di una culla/carcere.
Come spettatori si entra in un ambiente dalle sembianze di scatola chiusa e claustrofobica, e diventa impellente la necessità di uscire il prima possibile a respirare aria pulita, salutare gente per strada e creare relazioni. Di vivere senza paura.