per pianoforte e “viola” liberamente tratto da Joseph Conrad adattamento e regia di Chiara Guidi
musiche originali di Fabrizio Ottaviucci
con: Chiara Guidi e Fabrizio Ottaviucci
cura del suono: Marco Canali
produzione: Socìetas Raffaello Sanzio 16 Aprile 2015, Teatro Vascello, Roma
Anche con una sola candela accesa si può fare del buon teatro. Ciò che conta è che l’attore assuma su di sé una responsabilità, un rischio, che si esprime nei termini di una sfida: esistenziale, morale e politica. Chiara Guidi è una donna sovversiva, di estrema cultura, anti-borghese e anti-capitalista. Il libro, per lei, non deve sovrapporsi al teatro, né deve avvenire il contrario; la scena deve incarnare il testo letterario di partenza, e deve farlo senza fronzoli, senza narcisismi.
Una sfida, umana e artistica, con la cornice della rappresentazione, per abbatterla e rifondare la società, a partire dall’infanzia, perché è nell’infante che si ritrova lo sguardo puro, non ancora contaminato dalla cultura mass-mediatica e da spicciole logiche da salottino. Il teatro di prosa non è il “teatro della chiacchiera”, non serve a rispecchiarsi in una presunta cultura mediocremente letteraria: – è un’esperienza intima, per venti spettatori, ma tutti e venti presenti con lo spirito, non solo con lo sguardo.
Fissa il pubblico in sala, la Guidi, mentre dà vita a Tifone di Joseph Conrad, un romanzo di avventura ambientato su di un nave a vapore in mezzo al mare, crudele nel suo dare origine a un improvviso tifone tropicale mettendo a rischio l’intero equipaggio comandato dal capitano MacWhirr; un uragano ‘cattivo’ come la natura sa essere e con essa l’uomo. Con uno sguardo animalesco, gesticolando posseduta da un daimon (demone o essere divino in greco antico), articolando suoni acuti, gravi, ritmati – la Phoné che prevale sulla barzellettesca dizione da scuola di teatro di alto bordo –, incarna la sfida tra l’Attore e il suo Doppio, fantasmi personali da combattere al cospetto del pubblico, composto da una platea di sconosciuti resi testimoni eletti del rito scenico, al suono degli echi e dei riverberi di “ciò che non ha forma”.
Un teatro che scuota la spina dorsale dello spettatore, che dal silenzio faccia scoppiare un uragano senza essere coadiuvato da macchinismi, usando unicamente il proprio corpo, lo spazio, le luci e pochi e significativi oggetti: una bilancia, delle biglie, dei fogli, un pianoforte. La Guidi è infatti accompagnata dal pianoforte di Fabrizio Ottaviucci; ogni nota è pesata (sulla scena troviamo una didascalica bilancia) come lo è ogni sillaba emessa, le corde del piano sono manipolate violentemente dal compositore così come le corde vocali dell’attrice costruiscono, nel mentre, una storia che si svolge in mezzo all’oceano, ma che in fondo si svolge nelle viscere di chi la narra. È lì che si localizza “il centro del tifone”, ritrovando con gioia puntualmente espressa nell’evento scenico la lettura metaforica del romanzo conradiano, dove la lotta tra l’uomo e il mare non è altro che un pretesto per narrare una storia senza tempo e senza luogo, quella dell’uomo contro la propria natura, dunque contro il proprio essere-mortale.
“Come si può dire di che stoffa sia fatto un uragano se non lo si è mai visto?”, scrive Conrad. L’inesprimibile, il non-narrabile, l’ab-norme caratteristici dell’estetica del sublime risultano in questo dramma fonetico indicati – non rappresentati – perché solo marginalmente pensabili dalla mente umana. Il gesto iconoclasta dell’abbattimento dei clichés figurativi e recitativi, per ricondurre tutto alle fertili bassure dell’animo umano, appare la soluzione più coraggiosa e nobile, di una rarità così marcata da rendere Tifone un’esperienza irrinunciabile per chi, oggi, disquisisca di teatro, forse senza aver mai attraversato alcuna tempesta.
E se è vero che “non si impara tutto dai libri”, è altrettanto vero che i libri spesso salvano dai tifoni, come scialuppe di salvataggio alle quali aggrapparsi mentre la propria Nan-Shan va a fondo, talmente a fondo che nemmeno il saldo capitano Mac Whirr può farci nulla, se non abbandonarsi alla discesa nel Maelstrom che risulta inevitabile se si sceglie l’arte come professione; lezione di cui essere grati a Chiara Guidi e a tutti gli artisti i quali, prima e dopo di lei, preferiscono il rischio alle facili ovazioni.