Ciò che mi nutre mi distrugge, di Ilaria De Laurentiis e Raffaele Brunetti, Ita 2013, 66′
Produzione B&BFilm
Spesso quando si affronta il tema dei disturbi alimentari, che si tratti di un film, di un documentario o di un servizio televisivo, si pone l’accento principalmente sul lato esteriore della malattia, su come essa modifichi profondamente il fisico delle persone che ne sono affette: la videocamera, allora, indugia sulle ossa sporgenti, sul volto scavato. Utilizzare immagini forti è certamente una tecnica per sensibilizzare il pubblico su determinati argomenti, ma nel caso dei disturbi alimentari può rivelarsi fuorviante; non è raro, infatti, che le persone si facciano un’idea distorta su cosa siano realmente l’anoressia, la bulimia e i disturbi ad esse correlati, collegandole a motivazioni puramente estetiche.
Ciò che mi nutre mi distrugge, invece, si concentra sugli aspetti più profondi dei disturbi alimentari, sulle motivazioni psicologiche e non sugli effetti devastanti, sulla parola e non sull’immagine. Attraverso la storia di quattro ragazze, che vengono seguite durante alcune sedute con lo psichiatra nel corso di un anno, capiamo quanto possano essere diversi i motivi scatenanti della malattia e come essa possa svilupparsi in maniera totalmente differente da persona a persona: c’è chi sente il proprio corpo come un peso e lo rifiuta completamente, chi vuole dominare la natura attraverso il proprio corpo, chi vuole usarlo per ribellarsi ai propri genitori e chi ha paura di vederlo crescere e assumere le tipiche forme femminili.
Il documentario è ambientato nell’ambulatorio per la cura dei Disturbi Alimentari della ASL Roma E, che si trova nel comprensorio di Santa Maria della Pietà; si tratta dell’ex manicomio più grande d’Europa, un luogo molto suggestivo, circondato da un bellissimo parco. In questo spazio si inserisce silenziosa, invisibile, la macchina da presa, che registra i dialoghi fra psichiatra e ragazze, mentre con i primi piani coglie ogni minima espressione ed interpreta i silenzi che dicono più delle parole. Gli autori si addentrano con grande sensibilità, dovuta probabilmente alla loro esperienza personale – nelle note d’intento raccontano di aver scoperto nel 2006 che loro figlio soffriva di bulimia nervosa –, in un territorio complesso, e realizzano un documentario estremamente delicato dal punto di vista visivo, ma profondo e toccante dal punto di vista psicologico.