Diplomatosi a ventidue anni alla scuola di Perla Peragallo, incontrata per fatalità, Roberto Latini prosegue un percorso ininterrotto di vita nel teatro, come arte dell’incontro, come occasione continua, come responsabilità vigile nel dare espressione concreta a un’istanza di libertà creativa.
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INTERVISTA A ROBERTO LATINI: il teatro non è artigianato
Fotografia Simone Cecchetti
Fanny Cerri: Il tuo primo spettacolo è stato nel 1992, esattamente vent’anni fa. Poi nel ’94 è iniziata la collaborazione con Gianluca Misiti. Siete riusciti a vivere di teatro da subito?
Roberto Latini: No, noi nel ’99 siamo diventati una compagnia riconosciuta dal Ministero e io avevo ventinove anni, a quel punto. Avevo finito a ventidue la scuola di Perla Peragallo e a ventisette erano ormai cinque anni che facevo spettacoli, ma non ci campavo proprio, non ci campavo neanche lontanamente. A ventisette anni, però, per me è stato il momento in cui ho detto ‘Va be’, che facciamo? Richiamo mio zio?’ [ride]. In realtà quell’anno sono andato a fare dei concorsi, perché la scuola di Perla, rispetto al fuori dalla scuola, era un contesto piuttosto chiuso. Questo era un difetto necessario. Bisognava avere poi la capacità di pensare che fuori ci sono altri mondi. Quindi sono andato a vedere com’era fuori. E ho avuto l’occasione di fare dei concorsi per giovani attori e attrici e di vedere qual era il livello di chi veniva dal Piccolo di Milano, piuttosto che dallo Stabile di Genova. Lo dico molto razionalmente: se mi fossi reso conto di essere completamente al di sotto delle possibilità [degli altri], avrei smesso. Senza artisticità, diciamo. Non esiste, che io sono artista e quindi… Invece ho preso dei premi, in questi concorsi. Questo mi ha dato modo anche di allargare un po’ il mio contesto. Intanto a Roma succedevano alcune cose, minime. Poi siamo riusciti ad essere finanziati, sempre a proposito di fatalità, dentro un articolo che si chiamava articolo 14, Progetto giovani. Cinque compagnie, ogni anno, venivano ammesse ai contributi ministeriali (e questo è durato solo tre anni) e noi siamo stati i quinti dell’ultimo anno. Il mio percorso professionale è legato, secondo me, ai concorsi che ho fatto, perché ho trovato giurie di persone che mi hanno visto e che non avrei altrimenti mai potuto incontrare: non avrei mai potuto fare delle scene di fronte a nomi importanti del teatro, quali Crippa, Gassman o Allegri. Erano situazioni amplificate, rispetto a quello che era il mio contesto. Parte di quel ’99, dell’essere poi diventati una compagnia, penso che sia venuta anche da lì. Io, con due ragazzi usciti con me dalla scuola, con i primi due, avevo fatto un’associazione; poi Perla ci aveva dato una cantina, che aveva lei a Via Arno e che noi abbiamo rimesso a posto. Ci siamo messi lì a fare i muratori, mi ricordo, per sei mesi, ma poi, dai ventidue anni ai ventotto, ci
siamo rimasti sempre, siamo stati lì tutti i giorni.
FC: E Bologna?
RL: Bologna è stata una piazza, dove sono stato un’estate per una rassegna estiva; dopo l’estate, quello che era il direttore del Teatro San Martino ci ha chiamato per fare due spettacoli in stagione, uno a novembre e uno a marzo. Da lì è cominciata una relazione con le persone che erano il Gruppo Libero Teatro e poi nel 2007 io sono diventato il direttore del Teatro San Martino e nel 2008 abbiamo unito le due compagnie, formando Libero Fortebraccio Teatro. Loro poi hanno rinunciato (e Bologna ha tanti altri disastri); però Fortebraccio nasce insieme a Ilaria Drago, con cui già c’era una frequentazione, perché anche lei aveva frequentato la scuola di Perla Peragallo, l’anno successivo al mio, mi sembra. Con Gianluca, all’inizio, avevamo solo un nome d’arte, ci chiamavamo Clessidra Treatro, con la ‘r’ dopo la ‘T’, dal 1994; poi siamo diventati Fortebraccio e l’abbiamo anche registrato e dal 2008 è diventato Libero Fortebraccio Teatro quando siamo diventati compagnia di Bologna.
FC: Quindi non vi siete trasferiti a Bologna per una impossibilità di lavorare a Roma; è stata un’occasione che avete còlto.
RL: Beh… Io dal 2000 ero in Area 06, che era – e ancora esiste – un’associazione di associazioni: eravamo quattro compagnie di teatranti (noi di Fortebraccio; l’Accademia degli Artefatti; Werner Waas e Quellicherestano; Ascanio Celestini) e due gruppi di danza (Sistemi Dinamici Altamente Instabili di Alessandra e Antonella Sini e Travirovesce) e poi c’era una settima struttura, organizzativa (PAV, di Claudia Di Giacomo e Roberta Scaglione). Noi sei, più la struttura organizzativa PAV, abbiamo provato a fare a Roma quello che da soli pensavamo che non avremmo potuto. Ma non siamo riusciti a farlo nemmeno in sei, sebbene ci fosse anche Ascanio, che intanto stava diventando Ascanio, e nonostante il fatto che noi e gli Artefatti fossimo compagnie finanziate dentro il Progetto Giovani. Anche Quellicherestano era una compagnia finanziata. A Roma, in quel momento lì, eravamo piuttosto spendibili, tra i giovani. E se non siamo riusciti… Io penso che a Roma non si possa, perché non si vuole.
FC: Cosa succederà di Fortebraccio, dopo il tuo abbandono della direzione del Teatro San Martino?
RL: Restiamo a Bologna come sede e riprendiamo la migrazione, per quello che è normalmente. Lo spettacolo si può sempre preparare come abbiamo fatto prima di Bologna, dall’Abruzzo alla Toscana, piuttosto che in Friuli. Quando sarà da preparare, si vedrà.
FC: Quindi una sede a Bologna, come potrebbe essere in qualsiasi altra città.
RL: Sì. Sì, però siamo lì… Abbiamo provato sicuramente a rimanere a Bologna, strutturando lì il nostro lavoro; abbiamo presentato progetti di radicamento, lì, di radicamento della compagnia, quindi di lavoro per me e per altre persone.
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