Intervista rilasciata dal compositore Marco Morgantini, intervistato in occasione del concerto tenutosi il 13 giugno all’Auditorium Parco della musica, nel quale sono state eseguite sue musiche.
Sei un compositore molto interessato a discipline extramusicali, come la filosofia e la fisica. Quali relazioni riesci a instaurare fra queste e il tuo lavoro di musicista?
Direi una relazione metaforica o, comunque, di linea guida. Oggi ci sono troppe composizioni senza un’idea precisa alla base: sono le stesse che, alla fine dell’ascolto, non ci hanno condotto da nessuna parte. Ovviamente l’idea non esaurisce il lavoro del compositore, ma poiché la nostra mente, come ha dimostrato con eleganza Julian Jaynes, afferra ogni cosa e si impadronisce di ogni cosa inserendola in un rapporto alla cui base c’è la metafora, il lavoro con tutto ciò che è extra musicale è sempre un «come se». L’extra musicale può essere: l’idea di montaggio cinematografico, una teoria ottica o quant’altro. La tecnica, una volta acquisita, diviene un riflesso incondizionato, ma se non c’è l’idea – enzima a fare da catalizzatore – ecco che si resta fermi esattamente al punto di partenza.
Quali idee, ideali o altro ancora sono alla base della tua poietica compositiva?
Lo studio dell’alchimia è stato sempre per me fonte di idee. Direi che, per ora, ci sono alcune principali linee di immaginazione che seguo. Una, appunto, è quella dei processi alchemici e della psicologia alchemica. Poi viene il concetto di Gestaltung nel senso in cui lo intendeva Paul Klee.
In particolare, è stato per me importante lo studio delle icone, nelle quali la relazione tra divenire e forma (intesa come tode ti) è straordinariamente feconda: un minimo dettaglio, finemente lavorato, può, infatti, instaurare una potenziale δύναμις (dýnamis). Nell’icona viene espresso così, magnificamente, il tentativo di in-formare il divenire senza negarlo, attraverso una dialettica tra forma (intesa come ergon, approdo alla quiete dopo il movimento), e divenire in-formato: un tentativo, cioè, di mediazione tra due opposti che possano darsi come aspetti complementari di una forma più ampia, che accolga il divenire senza negarlo. Altri due importanti serbatoi ai quali attingo idee e stimoli sono il concetto di ripetizione, come lo intese Plus Servien e poi Deleuze, e il concetto di engramma, coniato nel 1908 da Richard Semon. Infine, la visione del mondo espressa dalla fisica moderna non cessa mai di fornirmi apporti immaginativi.
Quale funzione occupa, secondo te, la figura del compositore di musica contemporanea e d’avanguardia all’interno della nostra società?
Spero occupi gli spazi dell’inutile. L’arte deve essere inutile: non serve, perché regna. Però è bene non farsi troppe illusioni: come osserva con acume Czesław Miłosz, può essere benissimo che «il tono cupo e disperato dell’arte dal novecento ai nostri giorni, venga un giorno riconosciuto come una patina stilistica imposta, come un cliché». La massima per la quale «Noi non parliamo, ma siamo parlati dal linguaggio» sembra prendersi la sua rivincita: l’arte come manifestazione di un’epidermide irritata.
Progetti per il futuro.
Io mi comporto come un membro di alcuni popoli dell’Africa, per i quali il futuro non è di fronte a noi ma alle nostre spalle, poiché non possiamo scorgerlo.