Articolo di: Lucrezia Ercolani
Foto di: Sara Caroselli
Si è tenuto 12 Aprile 2013 a La Scatola dell’Arte l’ultimo incontro sul contemporaneo del progetto W.I.P. Il campo d’indagine è stata la danza a partire dal lavoro coreografico di Paola Bianchi. Si è affrontato l’argomento attraverso le esperienze di chi pratica la danza e le riflessioni di chi ne ha un approccio soltanto teorico.
Artista: Paola Bianchi
Teorici: Cristina Righi e Elena Cervellati
Moderatore: Anna Lea Antolini
@ La Scatola dell’Arte, via dei Latini 28, Roma
Venerdì 12 Aprile 2013 – ore 15.00
Nell’introduzione Anna Lea Antolini, consulente danza per Teatri di Vetro, racconta l’aneddoto di come ha incontrato nel suo ruolo di operatrice culturale la coreografa Paola Bianchi. L’artista aveva presentato in video la creazione Duplica, spettacolo dalla forte componente oscura data la proiezione di ombre su un telo nero da cui si vede in trasparenza un corpo, dando vita ad un dialogo tra le due parti, ad una drammaturgia di linee che disegnano il corpo e le sue ombre. Nell’esaminare il video di un artista da scegliere, uno spettacolo, in particolare di danza, – spiega la Antolini – diventa importantissimo osservare anche il gesto più piccolo.
Per Paola Bianchi la danza è composta da tre elementi: spazio, forza e tempo, ognuno dei quali può essere considerato sia da un punto di vista esterno che da uno interno. Per la coreografia è poi indispensabile un’altra componente: l’idea. Il primo passo nella creazione di uno spettacolo è, infatti, quello di dedicarsi per molto tempo alla raccolta di libri, film, articoli, suoni da condividere con chi faccia parte del progetto: da lì si inizia a costruire un percorso. Vi è poi un lavoro di interiorizzazione: ogni movimento deve partire da un vissuto non solo personale ma anche di altri – l’artista ha preso spunto da personaggio come Frida Kahlo e Francis Bacon, soprattutto in relazione all’indagine sulla rottura e deformazione del corpo –, ma sempre da qualcosa che muove da dentro. E’ questa la danza interna: un senso continuo di ciò che si sta facendo, piccoli movimenti muscolari (una «coreografia muscolare interna») difficilmente percettibili a distanza o attraverso i vestiti che per questo sono quasi inesistenti. Nel processo di ideazione della sua coreografia interiore l’artista disegna infine una mappa drammaturgica, nella quale è schematizzato e concentrato il senso dello spettacolo su carta. Ciò che è giusto mettere in scena coincide con ciò che è necessario in un progressivo lavoro a togliere.
Elena Cervellati, ricercatrice in danza moderna e contemporanea presso l’Università di Bologna, prende spunto da alcune parole chiave di Paola Bianchi per iniziare la sua riflessione teorica. Se il coreografo è un paesologo dei corpi, li deve studiare ed osservare attentamente per dare vita ad un progetto. La loro presenza sulla scena non ammette silenzio, il loro esserci è senso, parola. Parola che può diventare anche scritta: la danza moderna necessita di una scrittura esplicativa che spieghi il percorso concettuale racchiuso nello spettacolo.
Interviene a questo punto Cristina Righi, studiosa di semiotica della danza, la quale mette l’accento sugli scollamenti tra ciò che un artista vuole esprimere in un lavoro e ciò che può apparire agli spettatori: quando uno spettacolo prende vita, può sfuggire alle intenzioni di chi lo produce.
Segue una riflessione a più voci tra lo scarto tra corpi reali, quelli delle persone comuni, e i corpi lavorati, quelli dei danzatori. Se si percepisce distanza tra questi due tipi di corpi, il senso dei lavoro di ricerca non venendo colto, genera insoddisfazione nello spettatore. La tendenza ad ideare spettacoli includendo categorie di danzatori non canonici, come anziani e bambini, viene giudicata più come una crisi della danza contemporanea che come una soluzione, una via per far rientrare la danza nel tessuto sociale. Forse, unitamente ad una consapevole responsabilità da parte degli artisti dovrebbe esserci anche maggiore apertura da parte dello spettatore che dovrebbe andare a vedere lo spettacolo non per giudicare un prodotto in virtù del semplice gusto personale ma con l’intenzione di fare un’esperienza condivisa, in un certo senso universale.