UNA CENA ARMENA
Di Paola Ponti
Regia di Danilo Nigrelli
Con Danilo Nigrelli e Rosa Diletta Rossi
Consulenza ai testi Sonya Orfalian (autrice de La Cucina d’Armenia)
Scene e costumi Luigi Perego
Aiuto regia Silvia Scotto
Aiuto scenografico Luca Filaci
Light design Marco Maione
Musiche Laura Lala
Tecnico del suono Francesco Fazzi
Dal 15 al 20 maggio 2012, Teatro India – Roma
Il delizioso incontro-scontro tra Nina e Aram, rappresentanti di due generazioni tranciate dalla crudele mannaia dei Giovani Turchi, diventa tra le mani di Paola Ponti, brillante autrice del testo, Sonya Orfalian, impegnata e sensibile artista armena, e dell’encomiabile Danilo Negretti, attore e regista dell’opera, una fiaba commovente e profonda. Della fiaba riconosciamo alcune peculiarità: il c’era una volta, che qui diventa c’era e non c’era, espressione sintomatica di una totale mancanza di certezze; il senso edificante e costruttivo della storia, per quanto triste; una ricca e affascinante simbologia tratta da una realtà geograficamente ben delineata – benché scippata della propria identità -, che rimanda a una dimensione superiore e metaforica; il progressivo avvicinamento tra narratore e uditore, via via che la trama si dipana, che prescinde da ogni diversità caratteriale e culturale. Questi gli elementi che condiscono l’incontro, apparentemente fortuito, tra una giovane fanciulla (una valida e convincente Rosa Diletta Rossi), a prima vista invadente e sciocca, e un uomo adulto che ha avuto tutto il tempo di elaborare il suo lutto e quello del suo popolo, o quantomeno di tentare. Un lutto negato dalla Storia perché nessuno ha denunciato, nessuno ha visto. Solo le rondini hanno assistito a questo esilio forzato.
Il senso tragico insito nella Storia degli anni 1915-1918, che vede un milione e cinquecentomila Armeni camminare nel deserto, senza cibo né acqua, verso una morte pressoché certa, lascia spazio ai colori che travolgono la scena: corde colorate appese al soffitto aiutano lo spettatore a entrare nella magia intima della novella, mentre il tappeto di indumenti sul pavimento è un richiamo tragico ai resti di un’umanità evaporata al fuoco dell’odio turco.
Gioie e dolori vengono sapientemente miscelati in questa performance, come in una delle tante ricette declamate da Aram come giaculatoria per dimenticare. Tutto quel dolore è finito. Non fa più male. Bisogna mantenere i bei ricordi come illusione per sopravvivere, ma anche come morale per vivere. Le polpette di pane, gli involtini di foglie, il grano dolce condito: ripetere quelle formule aiuta a esorcizzare, a stordire il Metz Yeghèrn, il Grande Male. Il coltello da chirurgo, che Aram non può più utilizzare per esercitare la propria professione, diventa utensile da cucina piuttosto che arma di vendetta. Nina è lì per dissipare, con la sua dolcezza e il suo vigore giovanile, tutte le paure di Aram. La sua speranza si contrappone al niente che, come marchio rovente su un fiume di vite, ha annientato un intero popolo.
Il concetto di umanità è al centro di questa fiduciosa attesa di miglioramento. Chissà che Aram non riesca, un giorno, a volarsene a Yerevan e Nina a ritrovare qualcuno che le voglia bene, un punto di riferimento per la vita, una figura tanto saggia come quella del misterioso, caro maestro Luigi.
L’opera si propone al pubblico come una ricetta aperta a ogni tipo di personalizzazione, a partire, però, da ingredienti basilari. Un approccio critico verso la vita e i suoi errori, l’importanza della memoria come strumento d’indagine costruttivo, la lotta paziente contro ogni timore, la bellezza della relazione tra i singoli uomini e tra i popoli, fondata su una diversità intesa come arricchimento.
Sulle note del canto popolare siciliano Abballati, abballati, esplode un tripudio di luci e salti che permettono all’uomo di superare l’impasse, il vuoto, l’orrore. Io esito, tu esisti, nonostante tutto. L’acqua della brocca non è più quella che avrebbe dissetato il popolo arso dal sole, ma un segno di benedizione che farà di ogni viaggio un viaggio speciale. Il cibo cucinato non è più quello che domina gli incubi di Aram mentre cerca invano di soccorrere gli affamati nel deserto, ma è gioia viva.
Cosa direbbe ora il maestro Luigi? Che la vita è un lusso e non bisogna sprecarla.
Nell’abbracciare la speranza di rinascita, evocata da questa incantevole rappresentazione, questa sapiente miscela di piacevoli elementi, ci sembra appropriato utilizzare, come buon augurio per tutte le vittime di una storia incomprensibile, una formula piuttosto frequente nelle fiabe armene: Dal cielo caddero tre mele: una è per chi ha narrato, una per chi ha ascoltato e l’altra per il mondo intero. Come dire, e vissero tutti felici e contenti.