Cut, di Riccardo Romboli, Giulio Valli, Nico Di Lalla, Ita 2013, 75′
presentato alla XIII edizione del Riff e al Canada International Film Festival
Quale giudizio potremmo dare alle nostre ossessioni se esse, dopo averle riprese (consapevolmente?), venissero montate all’interno di un documentario destinato a esser visto da chissà quante persone?
È questa una delle domande, forse quella meno lampante, che s’insinua in noi dopo la visione di Cut, ambizioso progetto low budget presentato in concorso al Riff, che narra la storia di Max, giovane reporter freelance vicino alla svolta della sua carriera: intervistare un gruppo di anarco-insurrezionalisti che da anni compie attentati. Per essere testimone dell’evento, Max si dota di un paio di occhiali-camera che gli consentiranno di filmare tutto ciò che vedrà.
Con la struttura del mockumentary, intervallato dalle interviste ai protagonisti secondari che ricostruiscono vari momenti della vicenda e realizzato quasi tutto in soggettiva, Cut si trasforma in una sorta di dispositivo voyeuristico documentario che ci fa penetrare, oltre la testimonianza dello scoop, nella vita intima di Max, incapace di stabilire legami profondi con l’universo femminile. I suoi problemi, figli di un’ossessione autoreferenziale che nega il soddisfacimento del desiderio trasformandolo in prestazione libidinosa narcisistica, si palesano nella scissione tra sentimento carnale e amore platonico.
Quella di Max è una chiusura in se stesso e nel mondo della ripresa che notiamo anche dai suoi primi filmini amatoriali trasformati all’interno di Cut in immagini di repertorio. Il gruppo di attentatori, altro fuoco della narrazione, è descritto, in una sorta di rivisitazione degli anni di piombo, nel più classico dei modi: critica al sistema vigente e ai mass media. Ma l’aspetto più interessante del film di Romboli, Valli e Di Lalla è il lavoro compiuto su quella mdp oculare che diviene, oltrepassando la struttura protesica della tecnologia ed evidenziando la natura immersiva dell’esperienza sia dal lato del protagonista sia da quello dello spettatore, l’esempio del couplage uomo-macchina.
Per questo il Taglio del titolo è contemporaneamente la metafora dell’incapacità del protagonista di tessere un vero legame, in una sorta di perenne cesura nei confronti dell’altro, e il suo ricucirsi tra le immagini mediante la loro capacità di svelare l’andamento della storia, anche grazie a un finale convincente.