Benché l’opera ispiratrice sia il Miles Gloriosus di Plauto, l’accento trasteverino dei protagonisti non lascia adito a dubbi: siamo nella Roma delle borgate, dove la miseria va a braccetto con la delinquenza, ma anche con una buona dose di ironica astuzia che sdrammatizza perfino la disperazione più nera. Al servo Palestrione, interpretato da un esilarante e ineccepibile Roberto Valerio, il solenne compito di presentare la commedia. Ondeggiando dinoccolato verso il pubblico e facendo sfoggio di una parlata strascicata, pose plastiche e mimica esasperata, esordisce: «Er titolo in greco sarebbe Alozanone, ma noi in lingua nostra diciamo er Vantone». Gli altri personaggi, vere a proprie macchiette, non hanno bisogno di presentazioni ufficiali: mutandoni calati e canottiere sudice, capelli e muscoli unti di grasso, gambaletti di nylon in bella vista sotto la gonna, espressioni colorite di ogni sorta (rigorosamente in dialetto) sono il loro biglietto da visita.
La trama è da commedia dell’arte: Nicola Rignanese, nelle vesti di un Pirgopolinice vanesio e presuntuoso, è vittima di un ingegnoso complotto che gli fa perdere in un sol colpo possessi e dignità, senza risparmiargli neanche la mortificazione fisica. D’altronde Pierpaolo Pasolini, nel romanzo Una vita violenta, aveva già descritto la crudeltà del sottoproletariato romano del secondo dopoguerra, celata dietro la rappresentazione leggera di stralci di quotidiana. Alla fine dei conti, la convivente Filocomasio, la valente Roberta Mattei, fuggirà con l’amante, il servo si emanciperà per sempre dal suo ruolo di sottoposto e tutti gli altri si faranno sonore risate alle spalle del malcapitato. Difficile per lo spettatore immaginare che tale gaglioffo, modello Giggi er bullo, sarebbe stato messo nel sacco con tanta facilità. Nella scena iniziale, infatti, si mostra in tutta la sua sfrontatezza, pavoneggiandosi delle sue conquiste di fronte al suo affamato scagnozzo e compiacendosi sia del suo passato da carcerato che del suo presente da uomo d’onore de noantri. Nel vortice delle performance da avanspettacolo, non mancano musica, filastrocche e numeri da cabaret: si va dall’emblematico stornello Regina Coeli, canticchiato con fierezza dal padrone, all’intramontabile Tanto pe’ canta, intonato dopo un’interminabile preparazione vocale; dal charleston briosamente ballato dalla coloratissima ed esplosiva Milfidippa (una sorta di velina del tempo) al passionale tango danzato dalla neo-formata coppia di focosi amanti, il bruto e il travestito. E’ proprio durante quest’ultima esibizione che l’ironia raggiunge il suo acme, trasformandosi in genuina comicità nell’adattamento delle battute, scambiate in tono sensuale, al prosaico contesto: «Io sono il gorgo che travolge irresistibile, io sono il vortice del Lungotevere…Io bevo Lete e tu? San Gemini». Il tango è rappresentativo di sentimenti deformati e, in un certo, senso abbrutiti da tanta povertà, dove la bestialità prevale sull’amore, la prevaricazione sull’altruismo, la grossolanità sulla classe.
Come Plauto e Petrolini, Pasolini mette in scena la plebe, intesa come popolo continuamente dedito all’arte della sopravvivenza dalle angherie dei padroni e dall’ingiustizia sociale. E’ una plebe che rappresenta il paradigma di tutti i tempi, anche di quello attuale, pur nella sua inevitabile multiformità. L’ironia, da secoli, rimane la migliore arma di difesa dal sopruso.
IL VANTONE
di Pierpaolo Pasolini da Plauto
con Luca Giordana, Massimo Grigò, Roberta Mattei, Dario Mazzoli, Nicola Rignanese, Roberto Valerio
regia Roberto Valerio
Scena Giorgio Gori
Costumi Lucia Mariani
Luci Emiliano Pona