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…In questo modo l’opera d’arte si “materializzerebbe”, assumendo una tridimensionalità che oltrepasserebbe la tela nella rappresentazione concreta e non astratta di un’arte che si porrebbe tanto in sintesi quanto in antitesi al contesto sociale dominante. L’artista/intellettuale reagisce: mediante la propria opera d’arte, che non rifiuta – negando – il contesto, ma lo elabora criticamente incorporandolo in sé, manifesta una presa di posizione precisa. È così che Andy Warhol, nella riproduzione in serie dell’immagine di una sedia elettrica, usa la propria arte per veicolare e criticare, smascherandone il meccanismo, il concetto di “serialità” propria della nuova società industriale, mediante il quale l’individuo, continuamente bombardato e ossessionato dall’imposizione di immagini pubblicitarie atte al consumo di massa, giunge inconsapevolmente ad accettare acriticamente e passivamente il “prodotto” e il messaggio pubblicizzato.
Dalle reazioni artistico-sociali proprie della pop-art, i fotorealisti, negli anni ’70, aprono ad un realismo radicale, selezionano ed esaltano immagini oramai costanti nell’immaginario collettivo “massificato” riproducendo, con una minuzia quasi maniacale nella sua perfezione, lo scintillio dei motori rombanti di una moto da corsa – Tom Blackwell – o i colori edulcora(n)ti delle Gum Balls per bambini – Charles Belles -.
Solo con le opere di Robert Mangold, Carl Andre o Donald Judd, l’arte, diversamente, non è più strumento di critica ma è, autarchicamente, fine a se stessa: è arte per arte. Spogliata di tutto ciò che è percepito come inessenziale, l’arte diventa un atto che minimizza, riconduce, eliminandoli, i molti attributi, qualificanti ma inessenziali, all’essenza stessa di ciò che l’arte è in sé. È così che i modelli geometrici di Donald Judd o i tubi al Neon di Dan Flavin non sono altro che modelli geometrici e dei tubi al neon; quegli stessi tubi che, presenti nella nostra quotidianità, non vengono usati artisticamente per alludere o evocare altro, ma vengono mostrati semplicemente per quello che sono: tubi di plastica emittenti luce. Mediante essi e la loro composizione, Flavin si fa rappresentante di un’arte il cui contenuto è minimo/minimale, una pratica ordinaria, impersonale, autoreferenziale e non-allusiva. Così come ci dice lo stesso Frank Stella – ispiratore della corrente artistica minimalista, in opposizione all’espressionismo astratto di Pollock -, nulla nelle sue opere, – ad esempio Harran II, in esposizione – rimanda ad altro da sé: non è sentimento né espressione di un’interiorità inviolata, ma “in esse esiste solo ciò che si può vedere”.
In un arco temporale che va dal decisivo 1945 fino agli anni ’80, il confronto diacronico operante tra le mure del Palazzo Delle Esposizioni, da artisti quali de Kooning, Rothko, Gorky e Pollock, passando per Lichtenstein e Warhol, a Bruce Nauman e Chuck Close Stanley, mette in evidenza il ruolo determinante della produzione artistica americana del dopo-guerra che, mediante l’atto di inserimento nelle dinamiche socio-culturali come estraniazione disinteressata da esse, manifesta, allo stesso tempo, le differenti prese di posizione politico-sociali degli artisti del dopo-guerra, facendo, quindi, del Palazzo Delle Esposizioni, tanto il manifesto teorico quanto, concretamente, lo spazio/contenitore d’eccezione di un pezzo determinante della storia d’oltreoceano.
IL GUGGENHEIM. L’AVANGUARDIA AMERICANA 1945-1980
Palazzo delle esposizioni, 7 febbraio – 6 maggio 2012,
foto Andy Warhol, Orange Disaster # 5, 1963, Solomon R. Guggenheim Museum, New York, donazione della collezione di famiglia Harry N. Abrams.
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