scritto e diretto da Dario De Luca
con Matilde Piana, Dario De Luca, Davide Fasano
musiche originali di Gianfranco De Franco
disegno luci Dario De Luca
scene Aldo Zucco
realizzazione scene Gianluca Salomone
audio e luci Vincenzo Parisi
organizzazione Settimio Pisano
scultura di Cristo Sergio Gambino
una produzione Scena Verticale, in coproduzione con Festival Primavera dei Teatri, Festival Città delle 100 Scale
13 novembre, Teatro dell’Orologio, Roma
In scena uno spettacolo sull’assenza. Dario De Luca, regista, autore, attore e fondatore a Castrovillari della compagnia Scena Verticale con Saverio La Ruina, porta sul palco del Teatro Orologio una piéce dedicata alle centinaia di migliaia di persone affette dal morbo di Alzheimer e alle loro famiglie, levando il suo canto in un Paese in cui il fardello di questa malattia, ancora incurabile, sembra essere un tabù.
Come fossimo in un grande cervello, tutto si svolge tra le mura di una diocesi in cui una scenografia essenziale, costituita dallo scheletro di una parete rivestito di led, divide l’abitazione del parroco Don Antonio dalla cappella della chiesa, posta in fondo al palcoscenico e dalla quale si erge un grande Crocifisso illuminato fiocamente in modo da creare suggestivi chiaroscuri caravaggeschi.
Sebbene stilizzati, i due ambienti ci trasportano subito nel quotidiano dei tre personaggi: Don Antonio, colto e amato parroco di Bivengi, sua sorella Ricordina, detta Dina, che vive con lui come perpetua e il giovane e onesto diacono Fiore.
Sin dalle prime battute si viene coinvolti in un contesto familiare, con riferimenti ai problemi d’attualità, quali l’accoglienza degli immigrati approdati sulle coste italiane di cui Don Antonio, punto di riferimento della piccola comunità di Bivengi, vuole prendersi cura. Il sentimento di protezione e comprensione del protagonista nei confronti dei confratelli immigrati che, dopo il lungo viaggio in mare e le sofferenze vissute giungono su coste sconosciute privati della propria identità e costretti dalla contingenza a lasciarsi il passato e le proprie radici alle spalle per ricominciare da zero, sembra essere un primo indizio al tema affrontato nell’opera. Ancor prima dell’avvenimento che innescherà la trama, con un bell’effetto prospettico l’intero teatro si trasforma in chiesa, Don Antonio celebra la messa rivolgendosi al pubblico come se la chiesa si estendesse alla platea, dando inizio al rito teatrale. Da quel momento in poi inizia il dramma, l’azione, le prime dimenticanze di un parroco forse troppo stressato dalle mansioni della diocesi, o forse minato da un ladro di ricordi.
Prendendo forma in uno spazio scenico ridotto all’essenziale, i dialoghi e la recitazione del trio sono tanto convincenti da tenere lo spettatore in pugno, ci si immerge subito nella storia e nei ritmi della loro quotidianitá con la potenza e le atmosfere proprie di quel filone del teatro di tradizione classica a tematica civile e dal sapore dolce-amaro, erede di Eduardo De Filippo.
La recitazione infatti è tanto naturalistica, priva di virtuosismi o artifici manifesti, da far affezionare il pubblico ai personaggi, senza però perdere di tecnica e di forza metaforica. Come sbirciando dalla serratura, in un succedersi di sequenze ben strutturate in cui nulla è superfluo o autoreferenziale, seguiamo la vita di Don Antonio il quale dà i primi segni di malessere, inizialmente sottovalutati e canzonati dalla sorella Dina. Via via le dimenticanze si fanno più gravi precipitando la vita dei due fratelli nella grottesca esistenza di oblio.
Don Antonio viene infatti attaccato da una malattia incurabile che “ha il nome di un cacciabombardiere tedesco che spara e lascia crateri vuoti nel cervello…”: l’Alzheimer. Esattamente come la casa, Don Antonio diventa uno scheletro, un guscio vuoto. Le porte della casa lo ossessionano, gli pongono interrogativi che non è in grado di risolvere, le statue dei Santi si ribellano in comiche allucinazioni, ogni oggetto di cui va scordandosi l’utilizzo lo tormenta. Le pareti un tempo familiari si svuotano di significato, un labirinto di solitudine attraverso il quale solo la statua di Cristo conserva un’attrattiva per la labile mente di Antonio. Sente che è un qualcosa che lo riguarda personalmente, lo depone dalla croce e se lo porta con sè fisicamente e spiritualmente. Come un richiamo ancestrale la statua, di cui dimentica il nome, nella tipica postura della crocifissione, calzini alle braccia a mo’ di Rita Hayworth, culla l’uomo in un lento malinconico sulle note di Gianni Bella “Sei quello che sei, ma non ci sei”
Lo spettacolo racconta il progressivo decorso della malattia con efficacia espressiva dal punto di vista del malato e di chi lo assiste giocando sulle note della tragicomicità tipica di certe situazioni della vita tanto reali nella loro assurditá da essere al limite dell’immaginazione. La malattia vigliacca e ladra sottrae a poco a poco non solo i ricordi ma anche le capacità di ragionamento facendo regredire l’individuo allo stato infantile. Dario De Luca riesce a rendere con profondità ed efficacia interpretativa il veloce sviluppo della malattia assumendo di scena in scena atteggiamenti e posture che riflettono l’aggravarsi dei sintomi e il suo percorso di smarrimento.
Di grande intensità l’interpretazione di Matilde Piana nel ruolo della sorella Dina, che decide di assumersi anche questa croce e votare ancor di più la sua vita alle cure del fratello che presto smetterà di riconoscerla, scambiandola per un momento, persino per una partner. Attraverso questo gioco di malintesi che alleggeriscono con tragico umorismo mai inverosimile, De Luca affronta diverse tematiche sotto punti di vista completamente nuovi, quelli di una mente dimenticata la quale, cominciando ogni giorno da una pagina bianca, è libera dalle sovrastrutture e dalla storia delle azioni.
Mette a nudo l’essere umano privato della sua facoltà caratterizzante ponendo invece l’accento sulla sua meschinità e piccolezza che viene alla luce in una situazione limite come quella di una malattia degenerativa.
Commovente la tenera rabbia della sorella che, presa da momenti di esasperazione e frustrante impotenza, quasi aggredisce il fratello,o meglio il suo involucro che non riesce nelle azioni più elementari,per poi rassegnarsi alla dolcezza della comprensione del gioco che incanta Antonio componendo un trittico simbolo nell’ultima immagine prima del sipario: la Pietà
Il vero dramma dunque non è quello di chi ha la malattia, inconsapevole, ma quello di chi resta presente a se stesso, nell’assistere un caro che c’è senza esserci. Uno spettacolo originale ed efficace nella sua semplicità che porta ad interrogarsi sulla ricerca di senso portando alla luce una malattia paradossalmente dimenticata dalla società che ignora quanto essa sia invece presente nella casistica clinica.