La quinta edizione del Festival del cinema Kurdo aiuta a capire. Il documentario È stato lo Stato, proiettato al Nuovo Cinema Aquila, racconta una delle tragedie consumate in Kurdistan negli anni novanta, e lo fa attraverso gli occhi di chi l’ha vissuto.
È stato lo Stato, di V. Altay, Tur 2012, 55’
Questa è la realtà dei fatti. Se dovessimo affidare la nostra conoscenza ai media quali giornali e telegiornali, probabilmente, se non purtroppo, non avremmo mai la percezione reale dello svolgersi della storia umana. Tuttavia non è neanche possibile vivere ogni singola situazione che si svolge nel mondo; solo in quel modo avremmo infatti la facoltà di capire davvero tutto. L’arte è spesso un buon punto di vista e un racconto onesto. Quella visiva in particolare, come può essere, ad esempio, un documentario, rispecchia davvero la realtà, anche perché le immagini riescono a parlare da sole. Quando il documentario è figlio di una esperienza diretta non si può creare alcun dubbio.
Il Festival del cinema kurdo, giunto ormai alla quinta edizione, riesce ad aprire gli occhi sulla drammatica situazione vissuta da questo popolo. Veysi Altay attraverso il suo È stato lo Stato ci porta a conoscenza di una delle tragedie della storia dell’umanità, passata, come molte altre, inosservata o quasi.
Siamo in Kurdistan, un uomo si trova in una stanza, davanti a grandi pareti piene di fotografie di persone. Persone scomparse, persone morte, persone torturate, persone non trattate da persone. Per ognuna di esse c’è una storia, drammatica. Durante gli anni novanta infatti il popolo kurdo è stato vittima di crimini orrendi da parte dei seguaci di JITEM, l’ unità di intelligence antiterrorismo della Gendarmeria turca, e Hezbollah. Il documentario nello specifico segue queste vicende e il processo contro alcuni ufficiali responsabili di aver trasformato la regione del Kurdistan in un cimitero.
Il tutto è davvero molto toccante, angosciante, non soltanto per l’argomento trattato, quanto per la crudezza delle scene e per la freddezza dei perpetratori di tali atrocità. Come è possibile che un essere umano riesca a “non trattare” un suo simile in questo modo orribile? A volte si abbassa lo sguardo, altre volte si avrebbe la voglia di entrare nello schermo per fermare il tutto.
Non c’è una sceneggiatura, non ci sono protagonisti e co-protagonisti, non c’è la bella di turno: questo non è un film, questa è la realtà e così va il mondo.
Ci sono molte madri in Kurdistan alla ricerca dei propri figli, dei propri mariti. Seguono processi, credono che qualcosa possa davvero cambiare. Ciò che resta è la speranza, quella di non dover più assistere a questi drammi, e che tuttavia non può cancellare il dolore.
C’è un grande bisogno di documentari. Di documentarsi.