Mariuccia Giacomini è stata infermiera psichiatrica presso il manicomio di Trieste per ben tre anni prima che Franco Basaglia, con la legge 180 del 1978, fabbricasse la chiave per aprire le porte di quei lager. Mariuccia non è stata solo impiegata in quella struttura, ma anche testimone oculare di violenze fisiche e psicologiche la cui sola menzione fa accapponare la pelle: elettroshock, lobotomia, isolamento, abuso di psicofarmaci, punizioni crudeli, botte. Tante botte. Per lavorare nel manicomio, d’altronde, bastava avere la terza media, essere bravi a menar le mani e ad aggredire i matti.
L’ossessione della caposala per la pulizia degli spazi comuni – ma non dei malati, la cui puzza di piscio impregnava tutto l’ambiente, al punto da diventare l’odore del manicomio – non è che il riflesso di un perbenismo borghese attento esclusivamente al briluccichio delle apparenze. Il lerciume deve essere tenuto nascosto agli occhi della gente perbene che si ostina a non voler capire, che si rifiuta di credere che i matti sono ovunque, sparsi nel territorio dei normali. I veri matti siamo noi, che crediamo di essere migliori degli internati, così puri, liberi da condizionamenti e sovrastrutture, così straordinariamente se stessi. Il vero manicomio è, in realtà, un modo di pensare. Il muro è dentro la testa.
Con ammirevole coraggio, Franco Basaglia – incarnazione del perfetto connubio di scienza e umanità – decide di mandare affanculo tutta la comunità accademica e di fare la rivoluzione. Una rivoluzione di cui aver paura più dei matti. Restituiti finalmente alla loro dignità di esseri umani, gli utenti del manicomio si mostrano in tutta la loro leggerezza: giocano, emozionati come bambini, nel mare; ascoltano estasiati il suono delle parole a loro – sì, proprio a loro – rivolte; guardano esterrefatti il mondo circostante, nella spensieratezza di una gita, e lo vedono, con quegli occhi sensibilizzati da così tanta esperienza, benché livida di indicibile dolore e di ingiustizia. Quei corpi vuoti, espropriati di tutto, denudati della loro identità e intimità, inebetiti da induzioni volontarie di collassi, shock anafilattici, tachicardia e febbri malariche, hanno tutti una storia drammatica da raccontare.
Con Basaglia, viene riconsegnata una ricchezza alla vita dei normali. Per Mariuccia, all’inizio, il suo era un lavoro come un altro – e si vergogna a dirlo oggi – necessario per sopravvivere economicamente alla separazione dal marito. L’elettroshock, per lei, era una terapia ordinaria, cruenta ma necessaria. Solo il Ralli, il reparto bambini (il primo ad essere smantellato con la riforma) è sempre stato, per lei, un ambiente orrendo. Anche Mariuccia, con Basaglia, è diventata una donna nuova. Ha imparato l’apertura e il rispetto verso il prossimo. Ha capito che è sacrosanto riconoscersi nei propri simili e assumersi la responsabilità della vita degli altri.
Solo oggi, dopo un lungo percorso di ricerca introspettiva, Mariuccia – insignita del titolo di amazzone del lavoro – può affermare con convinzione che il manicomio è il posto più bello che c’è.
Giulia Lazzarini, in piedi dietro al leggio, interpreta il testo di Renato Sarti con estrema delicatezza e commozione. Il merito dell’autore è quello di aver saputo inondare di poesia la descrizione – elaborata attraverso una ricca raccolta di testimonianze – di un traguardo fondamentale per la storia dell’umanità.
MURI – Prima e dopo Basaglia testo e regia di Renato Sarti con Giulia Lazzarini dal 17 al 22 gennaio 2012 Teatro India – Roma