Das Weiße Band 2009
Durata 144’
Regia Michael Haneke
Sceneggiatura Michael Haneke (collaborazione di Jean-Claude Carriére)
Soggetto Michael Haneke
Montaggio Monika Will
Fotografia Christian Berger
Produttore Stefan Arndt, Veit Heiduschka, Michael Katz, Margaret Menegoz, Andrea Occhipinti, Ulli Neumann
Interpreti Christian Friedel, Leonie Benesch, Ulrich Tukur, Ursina Lardi, Fion Mutert, Michael Kranz, Burghart Klaussner, Josef Bieberbichler, Rainer Bock, Susanne Lothar
Lo stupefacente bianco e nero di Haneke, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2009, è gelido, nitido e tagliente e accoglie la voce narrante di un vecchio maestro: ancora stordito, egli racconta gli strani eventi che si susseguirono nel suo villaggio della Germania nord-orientale a partire dal 1913. In un primo momento sembra si tratti di incidenti fortuiti, ma presto appare evidente che qualcuno è responsabile di ciò che sta accadendo: un cavo teso tra due alberi fa sì che il medico venga disarcionato, un fienile prende improvvisamente fuoco, due ragazzini, il figlio del barone e il figlio disabile dell’infermiera, vengono rapiti e torturati.
La comunità si mette alla ricerca del colpevole, sebbene sia essa stessa macchiata di nefandezze: rapporti incestuosi tra un padre e sua figlia, punizioni corporali del pastore del villaggio sui suoi “ragazzi”, e lo stesso amore, tra il dottore e l’infermiera, che diviene squallido sesso. In quel microcosmo tetramente incantato il regista usa i personaggi e le loro vicende come strumenti di analisi della psicologia umana: i concetti puri e candidi della famiglia, dell’amore, dell’amicizia, della religione si dipingono di tinte fosche; appaiono malati e morbosi, violentati, poiché perdono l’originaria e primordiale bellezza per far apparire un’intrinseca drammaticità. Quando questi valori vengono radicalizzati e imposti- come fa ad esempio il pastore che obbliga i suoi figli al baciamano o all’educazione ai precetti luterani con la minaccia della verga- vengono rigettati: costretti nell’agire, i bambini nella loro purezza tentano la ribellione perché guardano alla regola come la mancata possibilità di ingerire il proibito, che altro non è se non la spontaneità della vita, misteriosa e affascinante, ma, in ragione di ciò, per gli adulti, tentatrice e spaventosa.
Così se da un lato il nastro bianco, come oggetto che la moglie del pastore lega al braccio o ai capelli dei figli, è il memento dell’innocenza e della purezza, il veto posto «all’egoismo, all’invidia, all’impudicizia, alla menzogna, all’accidia», dall’altro lato è esso stesso il Peccato; va strappato e distrutto: è il simbolo di una rigidità culturale che, invece di educare il bambino, causa la sterilità dell’essere umano, automa dagli occhi cavi, bugiardo e infelice. L’angoscia, lenta e inesorabile, che traspare dalla pellicola per l’assenza della colonna sonora, spiazza lo spettatore sin dall’inizio e non gli offre mai un appiglio verso la tranquillità. Anche quando la comunità ri-comincia a “vivere la sua quotidianità” con la celebrazione delle cresime, della festa del raccolto, del Natale, la minaccia inquietante incombe sempre, finché l’infermiera sussurra al narratore di aver capito chi possa essere il colpevole e, afferrata con austerità la bicicletta, comincia a pedalare verso la città, per confessare tutto alla polizia.
Ma a quel punto lo stesso spettatore non ne è più interessato. Non c’è catarsi per ciò che ha visto, sentito. Non può metabolizzarlo, ma può, con le parole dello stesso regista, comprenderlo:«qualsiasi principio, quando viene assolutizzato, diventa disumano. Che sia un ideale religioso, politico, sociale, quando diventa pensiero unico, produce il terrorismo. Una certa educazione e cultura in senso assolutista porta a degenerazione altrettanto assolutista, al terrorismo, al fanatismo religioso, al Nazismo, anche se questo film non è un lavoro sulla Germania o sul Nazismo». Ed è questa ansia angosciante che si respira nel capolavoro di Haneke.
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