Un Prophète, Francia 2009,
Durata 155′,
Regia Jacques Audiard,
Sceneggiatura Thomas Bidegain, Jacques Audiard,
Soggetto Abdel Raouf Dafri e Nicolas Peufaillit,
Montaggio Juliette Welfling,
Fotografia Stéphane Fontaine,
Musiche Alexandre Desplat,
Produttore Martine Cassinelli, Lauranne Bourrachot, Marco Cherqui, Antonin Dedet,
Interpreti Tahar Rahim (Malik El Djebena), Niels Arestrup (César Luciani), Adel Bencherif (Ryad), Reda Kateb (Jordi lo zingaro), Hichem Yacoubi (Reyeb), Jean-Philippe Ricci (Vettori), Gilles Cohen (Prof), Antoine Basler (Pilicci), Leila Bekhti (Djamila), Pierre Leccia (Sampierro), Foued Nassah (Antaro), Jean-Emmanuel Pagni (Santi), Frédéric Graziani (Direttore del carcere), Slimane Dazi (Lattrache), Rabah Loucif (Avvocato di Malik).
Nell’attesa che il Festival di Cannes ci incanti con le sue pellicole, eccoci pronti a ricordare i successi passati – ma non troppo – dei registi in concorso. Uno dei protagonisti dell’edizione 2012 sarà Jacques Audiard con il film De rouille et d’os, basato su una raccolta di racconti di Craig Davidson. Già nel 2009 Audiard ha conquistato una delle Palmerès di Cannes, vincendo il Grand Prix Speciale della Giuria con il film Il profeta.
«E’ evidente che i film di genere si presentano sempre come una metafora. Il personaggio viene incarcerato per scontare una lunga pena, e in prigione capirà ciò che gli servirà dopo, all’esterno». Ad Audiard bastano queste parole per inquadrare i punti salienti del percorso del suo protagonista. Sin dalle primissime scene vediamo Malik El Djebena, un diciannovenne quasi analfabeta dai tratti mediorientali, inserito nel contesto che lo ospiterà per i prossimi sei anni, e che cambierà radicalmente la sua vita: il carcere.
Malik non è un eroe convenzionalmente inteso: il film non punta a cantare le impavide gesta di un criminale che riscatta la sua condizione, né a espiare le colpe di un pentito. Malik è un profeta contemporaneo, come intende ironicamente il titolo; è una mente sinuosa che brilla per spirito di adattamento. Una volta in carcere si ritrova solo, disarmato e privo di protezioni, all’interno di un microcosmo in cui le fazioni sono due, e ben distinte: i còrsi dominanti da un lato, e gli sciocchi arabi dall’altro. Malik è cresciuto in un orfanotrofio, parla sia il francese che l’arabo, ed è del tutto sprovvisto di un’identità culturale alla quale appellarsi; ma è proprio grazie a una tale mancanza di appartenenza, che Malik riesce a comprendere le dinamiche di potere all’interno della prigione – e della malavita organizzata – e a diventare padrone non solo del proprio destino, ma anche di quella gerarchia che vorrebbe sopraffarlo.
Sono tre le figure che segnano profondamente il suo percorso: primo fra tutti – interpretato da un superlativo Niels Arestrup – César Luciani, il boss dei còrsi, che si impone come padrone e protettore, in cambio di servigi che voteranno irrimediabilmente Malik alla violenza; Ryad, che lo aiuterà a seguire le lezioni della scuola del carcere, e si rivelerà un amico sincero; e infine la presenza a metà tra visione e onirico di Reyed, una sorta di proiezione di sé che farà di lui un profeta al di fuori di qualunque schema.
Per sei anni Malik lotta e danza tra còrsi, arabi e gitani; impara a leggere, a scrivere, a parlare il dialetto di César, si propone alle guardie come ausiliario; si trasforma in un acrobata e completa la sua formazione come criminale, perdendo gradualmente ogni senso di colpa e ogni briciolo di umanità, al fine di affermare un’identità propria e slegata da qualunque gruppo. Il suo tragitto è seguito da un’incalzante macchina a mano che lo sovrasta; lo stile di Audiard emerge essenziale e cupo, anche grazie al largo uso di quello che il regista chiama La Mano Negra, un effetto che punta a oscurare buona parte delle immagini presenti nell’inquadratura, mettendo in risalto solo una determinata porzione del campo.
A dare corpo e voce a Malik è Tahar Rahim, che ci regala un’interpretazione eccellente; l’identificazione è tale che protagonista e spettatore camminano insieme: contemporaneamente scoprono la vita nel carcere e l’importanza di una buona dose di spirito d’adattamento. Sebbene il protagonista risulti vincente, il film ci mostra comunque una di quelle figure tanto care al regista, utilizzate come chiavi di lettura della società: anti-eroi che scelgono – o sono portati a scegliere – una vita criminale.