Un fotografo cieco? Sembra un paradosso. Invece Evgen Bavčar, fotografo sloveno non vedente dall’età di dodici anni, dimostra il contrario. Le sue fotografie, esposte nella mostra Evgen Bavčar. Il buio è uno spazio nel Museo di Roma in Trastevere, provano che la fotografia non debba necessariamente essere pura riproduzione visiva della realtà.
I suoi scatti, la maggior parte in bianco e nero, trasportano in un meraviglioso mondo, quasi onirico, in cui la luce accarezza elegantemente volti, corpi, paesaggi ed oggetti.
Il cieco traduce le sue immagini interiori in immagini esteriori: “Offro alla vostra vista la trascendenza delle immagini che esprimono lo sguardo spirituale del mio terzo occhio.” Questa sua offerta costringe noi, osservatori delle sue fotografie, a riconsiderare la percezione visiva smettendo, per un attimo, di considerarla unica e assoluta possibilità di conoscenza.
Nella serie Infanzia una ragazzina vestita di bianco corre a braccia aperte per un prato, ci sembra quasi sentirla gridare e percepire il vento che incolla il vestito al suo corpo. Corre per un prato scosceso, pare che perda l’equilibrio invece si abbandona e si fa trasportare dal vento. Bavčar scatta in relazione ai ricordi, ai suoni, ai profumi e questa immagine sembra dar voce alla nostalgia del fotografo per i suoi primi anni vissuti in Slovenia. Bavčar, laureato in Estetica alla Sorbona, si definisce artista concettuale ed effettivamente nelle sue opere il Concetto prevale necessariamente sul risultato estetico; non è solo un’innocente ragazzina che corre nel fiabesco prato dei ricordi ma è un’immagine che vuole riprodurre una dimensione interiore e trascendente.
Il fotografo provoca deliberatamente ed abilmente i nostri pregiudizi dimostrando che la nostra soggezione rispetto all’impossibilità di vedere è soltanto un’ulteriore manifestazione dell’iconofilia che domina il nostro mondo. A spada tratta l’artista si difende da quello che chiama “razzismo visuale” e, in modo talvolta militante, ci costringe a riflettere. Guardando le sue fotografie non è concesso dimenticare che sono state scattate da un uomo che vive in un buio eterno, non è permesso trascurare il fatto di avere il privilegio di accedere a una realtà occlusa all’autore stesso. Il rischio è che questo diventi il principale criterio di giudizio della sua arte: il concetto prevale.
Bavčar si autoritrae da ferito di guerra, una benda bianca sugli occhi e una pesante arma da fuoco, di cui si staglia l’ombra nera, tra le braccia. Effettivamente è un mutilato di guerra: Da ragazzo un ramo ha ferito il suo occhio sinistro e successivamente la scheggia di una mina lo ha colpito all’occhio destro togliendogli completamente la vista. Un’altra fotografia mostra l’interno di una baracca. Su una branda è affissa la fotografia della liberazione di alcuni sopravvissuti di un campo di concentramento – forse a suggerirci che lui, da disabile, non sarebbe stato tra loro-. Bavčar è artefice e vittima armata di quello strumento capace – grazie ad una reazione di luce su sostanza chimica – di rendere visibile. Nelle sue mani diventa un’arma capace di esasperare la sua situazione di esistenza in una camera oscura perenne. Ne risulta un’arte di impronta fortemente didattica, ma non una morale fastidiosa: essa invita a dare meno importanza alla realtà visibile e a prendere piuttosto in considerazione le nostre – preziose – immagini interiori.
EVGEN BAVčAR. IL BUIO E’ UNO SPAZIO
Museo di Roma in Trastevere, Piazza S. Egidio 1B, 19 gennaio – 25 marzo 2012
a cura di Enrica Viganò
foto © Evgen Bavčar / Courtesy Esther Woerdehoff 2011
Nessun commento
Liebe Anna, ich habe Probleme mit der Frage, w i e denn ein Blinder fotografieren kann.