Lo Spazio nei suoi più vari aspetti, come dimensione che circonda e accoglie gli esseri umani in ogni momento della loro esistenza, è ciò che si tenta di mostrare attraverso le installazioni di quindici differenti artisti, raccolte per l’esposizione Extra Large, nei suggestivi locali di MACRO – Testaccio.
Titolo: Extra Large
Artisti: Giorgio Andreotta Calò, Micol Assael, Pedro Cabrita Reis, Isabelle Cornaro, Nemanja Cvijanović, Anna Franceschini, Kendell Geers, Heike Kabisch, Avish Khebrehzadeh, Marko Lulić, Vittorio Messina, Jun Nguyen-Hatsushiba, Alfredo Pirri, Pietro Roccasalva, Pietro Ruffo.
Luogo: MACRO – Testaccio, P.zza Orazio Giustiniani, 4.
fino all’ 11 maggio 2013
In foto: Pietro Ruffo, Youth of the Hills, 2008.
Gli spazi, più o meno vasti, più o meno tangibili, possono essere intesi come involucro degli uomini, ma anche di ciò che essi creano e di cui si circondano. In questo senso, è la Storia a essere uno spazio, così come è uno spazio quel luogo, immateriale, in cui l’Uomo soffre, sogna, progetta.
Le installazioni presentate nel percorso di Extra Large vogliono raccontare lo Spazio, ed è forse con questo obiettivo che la loro mole vuole coinvolgere chi le osserva. Le grandi dimensioni delle opere, cui anche lo stesso nome dell’esposizione fa riferimento, consentono di muoversi in spazi che sono, a loro volta, compresi in un altro spazio – quello espositivo, appunto –, di nuovo compreso in uno spazio più grande – come può intendersi la città –, ulteriormente e naturalmente compreso in dimensioni ancora maggiori.
Questa struttura, simile a una matrioska, pone l’osservatore al centro dell’opera e quasi lo costringe a essere partecipe di ciò che essa vuole mostrare.
Da questo punto di vista, se Khebrehzadeh trasporta lo spettatore negli spazi onirici ed evanescenti di acqua e cielo, Ruffo e Geers lo inchiodano a un presente storico doloroso e inevitabile. Allo stesso modo, ci si muove all’interno di spazi esotici e lontani con il lavoro di Carnaro ma, poco distante, Franceschini riaccompagna a una contingenza familiare fatta di suoni e immagini noti.
Nel continuo alternarsi di mondi più lontani e più vicini rispetto a chi guarda, nell’oscillare tra la confusione di suoni e colori e l’oscuro silenzio, nell’avvicendarsi di tensione e quiete, è lo Spazio stesso o meglio, sono gli Spazi stessi a espandersi e contrarsi attorno a chi li attraversa, rendendolo di volta in volta più o meno parte integrante di ciò che osserva, più o meno direttamente partecipe di ciò a cui, effettivamente, sta partecipando.
Fermandosi nel buio sordo creato da Calò ci si astrae dalla chiassosa contemporaneità di Cvijanović, e il freddo e le scintille di Assael riscuotono dalla placida ma inquietante stasi messa in scena da Kabisch.
Ecco dunque che, nel costante contrapporsi e sovrapporsi delle diverse dimensioni del concetto di Spazio, intendendo dimensioni tanto in senso fisico quanto in senso astratto, lo spettatore come essere umano posto non solo davanti, ma dentro una realtà che, se anche artificiale, è pur sempre rappresentazione di quello Spazio il quale, suddiviso in spazi sempre minori, inevitabilmente lo contiene.