Tir, di A. Fasulo, Ita 2013, 85′ Produzione Nefertiti Film Distribuzione Tucker Film @ Cineclub Detour, 4 – 11 Maggio 2014
È un labilissimo confine quello che Alberto Fasulo traccia tra finzione e realtà nel suo Tir, vincitore all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma, del Marco Aurelio d’Oro.
Tir è la metafora dell’on the road della fatica. Tra inquadrature lunghe e fisse nei dialoghi e un montaggio più serrato nelle azioni, ci affacciamo in una esistenza fatta di discreta invisibilità trasmigrante che non permette nemmeno di godersi un paesaggio o un tramonto: tutto scorre intorno a noi come un fiume nel quale però non possiamo immergerci se non in una condizione alienante. Branko Završan è un solitario Ulisse contemporaneo, un attore trasformato in un vero e proprio camionista – ha conseguito la patente di guida per tir per il film – di una ditta di trasporti italiana che ci conduce in quella scissione tra nomadismo e sedentarietà in cui le relazioni umane sembrano deflagrare. Esempio di ciò sono le telefonate della moglie di Branko che donano un aldilà all’immagine costituito da una vita quotidiana a cui si anela nella sua stessa conscia negazione. La consapevolezza di scegliere un lavoro che permette di guadagnare cifre tre volte superiori è il rischio di intraprendere la strada verso l’emarginazione (temporanea?) dagli affetti e dalle passioni.
«Più che fare un racconto sociologico mi interessava entrare sotto la pelle del mio personaggio e riprenderlo in un momento di crisi personale, in cui si vedesse obbligato a compiere una scelta, non solo pratica, ma anche etica ed esistenziale». Era questa la volontà del regista, che tuttavia si trasforma nella pellicola in una sorta di sussunzione del particolare sotto l’universale.
Quello di Tir è il Rito del non ricordarsi che giorno è oggi. Il dolore dell’esser lontani si trasforma nell’attesa del ritorno a casa.