Federica Rosellini, Francesca Manieri | Bigodini (Oh, Mary)

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photo Manuela Giusto

photo Manuela Giusto

 

 

Compagnia ARIELdeiMERLI
da Frankenstein di Mary Shelley
libero adattamento di Francesca Manieri e Federica Rosellini
con Cristina Gardumi e Federica Rosellini
designo luci e foto di scena Angeles Parrinello 
costumi Marta Genovese
sound engineer Elisa Nancy Natali
assistenti alla regia
Elvira Berarducci e Silvana Tamma
regia Federica Rosellini e Francesca Manieri
 
20 Maggio 2015 Teatro dell’Orologio Roma

 

Una scelta di programmazione particolare quella di presentare un anti-spettacolo come Bigodini (OH. MARY) di Francesca Manieri e Federica Rosellini, rappresentazione non illustrativa dell’opera di Mary Shelley che mescola carteggi e suggestioni biografiche, opere e vita. Non si tratta qui di una favola gotica, né di un racconto didascalico, ma di un adattamento facente riferimento a una ricerca dove la drammaturgia va di pari passo alla recitazione in quanto a spingersi ‘oltre’ un limite di pertinenza sia dell’aderenza tra materia di studio e materia rappresentata sia tra teatro di prosa e teatro di ricerca.

Mary Shelley e le sue creature sono personificate da Cristina Gardumi, Giovanna d’Arco di Dreyer e Sarah Kane redivive in un corpo armonioso e androgino, e la rinascimentale Federica Rosellini, eterea e demoniaca allo stesso tempo. Le due attrici, come possedute dalle molteplici anime della Shelley e dei suoi demoni, si muovono “come in un utero”, declamando un testo disturbante, da ascoltare e da immaginare nel suo estrinsecarsi in immagini e in scene. Terribili, come quella della nascita della creatura, Frankenstein, o quelle dei molteplici aborti della scrittrice, narrate con parole scandite con intento balistico da conficcare nell’immaginazione di chi assiste al rituale della riesumazione di ricordi e traumi di una donna artefice di uno degli incubi più noti della letteratura occidentale.

Il Frankenstein qui è da intendersi non solo come martirio di un mostro, che alla fine del romanzo si dà fuoco su un pira, ma soprattutto attraverso il concetto di aborto nell’essere ‘cosa’ del feto, un rifiuto del corpo, un soggetto in potenza che non si fa atto, divenendo cadavere precoce e in questo essendo un simbolo della vita ripiegata sulla morte.

Bigodini o bigattini poco importa, la disturbante storia che dev’essere narrata è rianimata da una recitazione improntata su azioni fisiche, coreografate nell’alternanza tra le movenze regressive e pre-espressive della Gardumi e il corpo nudo e statuario della Rosellini. Entrambe le attrici si autoinfliggono la penitenza del portare una fascia che comprime loro il torace: oltre a sperimentare una respirazione auto-soffocante sperimentano una parabola attoriale cieslakiana che le porta a una sorta di trance, creando una sacralità dell’atto scenico, una sua antropologica funzione più che catartica quasi da rito sacrificale, qualcosa più vicino all’animale che all’umano, donando molto rilievo al gesto che corre parallelo rispetto alla parola in una scrittura scenica analitica e ragionata senza margini di improvvisazione. La perfetta sincronia dell’esecuzione delle due attrici dona alla rappresentazione quel sapore di completezza, come se si fosse detto tutto quello che andava tirato fuori, come un dente da tirare, un parto che libera da un doloroso travaglio.

Il finale, con la Gardumi-prete che porta su di sé il corpo senza vita della Rosellini, è di gran forza e porta a riflettere inevitabilmente sulle implicazioni gender della rappresentazione che elimina brutalmente la figura del maschio, pur essendo mascolini i costumi delle due attrici (a eccezione di una lunga gonna viola indossata nel finale), inserendosi in un dibattito prettamente contemporaneo e spinoso come evento scenico di risonanza etica oltre che artistica.

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Redazione

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