Ormai da dieci anni il Centro Internazionale Crocevia presenta il Festival delle Terre, selezione di documentari che ha come oggetto l’universo dei diritti legati alla terra. Canning Paradise nello specifico racconta il sovrasfruttamento delle risorse ittiche del pacifico australe, aprendo gli occhi sulla filiera della produzione di tonno. Realmente, sappiamo Chi decide cosa c’è nel tuo piatto?
Canning Paradise, di Olivier Pollet, Australia/Papua Nuova Guinea/Francia 2012, 90’
Produzione: Olivier Pollet / Fourth World Films
Produttore associato: Alexandre Berman
Riprese: Olivier Pollet, Tormod Spencer Austad, Mathew Mytka
Redazione: Alexandre Berman
Distribuzione: Ronin Films
Antonio Lunati, presidente di Crocevia, introducendo il documentario Canning Paradise, parla di come la privatizzazione del mare, nell’ambito della pesca, ripercuota i suoi effetti negativamente sul ciclo vitale del mondo. La pesca senza rispetto rischia di estinguere alcune specie di pesci e organismi, parti di una catena alimentare che nel caso in cui si scombinasse creerebbe un butterfly effect molto pericoloso.
Il documentario in questione affronta i problemi della pesca nel pacifico australe, in particolare nelle acque della Papua Nuova Guinea.
Immaginando questi luoghi si pensa sicuramente al paradiso terrestre, a spiagge, montagne ricche di vegetazione, mare blu ricco di pesci, e soprattutto a popoli che vivono avendo un legame fortissimo con la natura, con la loro terra, rispettandola e non sfruttandola fino all’ultima goccia.
Poi succede che arrivano i “cattivi”: il mondo occidentale, la gente del progresso, pronta a colonizzare qualsiasi luogo non ancora conformato al suo modo di vivere. E visto che i Paesi Sviluppati hanno anche il potere delle leggi, ci vuole poco ad immaginare che in un luogo dove la pesca è sopravvivenza, grazie a cavilli di giurisprudenza diventi pesca finanziaria, nel senso che lo scopo principale non è più sfamarsi, ma guadagnare denaro.
Accade così che compagnie internazionali arrivino nelle acque della Papua Nuova Guinea e si impadroniscano della fauna acquifera, in particolare del tonno, un tipo di pesce da 4 milioni di tonnellate l’anno. La scusa come sempre è quella di creare posti di lavoro, di creare progresso. Chi guadagna effettivamente però? Dov’è questo circolo di soldi in favore delle popolazioni cosiddette in via di sviluppo? Sapete quanto guadagna un operaio di un’industria di produzione di tonno in scatola in Papua Nuova Guinea? 15 dollari a settimana, lavorando tutti i giorni, moltissime ore, e vivendo praticamente nella fabbrica, perché non c’è quasi tempo di tornare a casa. E non parliamo di chi è operaio sopra le navi da pesca.
Il problema non è tanto la pesca industriale, che può farsi anche in modo tradizionale, con lenze e quant’altro. Il problema è il metodo, è la filiera di produzione, dalla pesca al piatto. È sicuramente facile entrare in un supermercato e scegliere un prodotto. Quante persone immaginano cosa davvero ci sia dietro ad una semplice e piccola scatola di tonno? Probabilmente l’unica differenza percepita è tra quello al naturale e quello sott’olio. Il problema è proprio questo, la scarsa sensibilizzazione, dimostrata anche dal numero delle persone in sala durante la proiezione. Bisogna dare onore al giovane regista Olivier Pollet, e agli organizzatori di questo festival. Il governo della Papua Nuova Guinea intanto non protegge di certo la sua popolazione.
Il denaro, soprattutto quello sporco e comodo, fa gola a tutti.