Festival Internazionale del Film di Roma – I Am not him

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I am not him del romanziere, pittore e regista turco Taifun Pirselimoglu è stato presentato in concorso all’ottava edizione del Festival di Roma sabato 9 novembre. Il film indaga in maniera contemplativa un classico della cinematografia: il tema del doppio.

I Am not Him (Ben o Degilim), di Tayfun Pirselimoglu, Tur/Gre/Fra/Ger 2013, 123′

Produttori: Veysal İpek (Turkey), Nikos Moustakas (Greece), Guillaume de Seille (France) İrfan&İnci Demirkol (Turkey), Mustafa Dok (Germany), Konstantina Stavrianou (Greece)

Direttore della fotografia: Andreas Sinanos

Art Director: Natali Yeres

Montaggio: Ali Aga

Tecnico del suono: Fatih Aydoğdu

Cast: Ercan Kesal, Maryam Zaree, Rıza Akın, Mehmet Avcı, Nihat Alptekin

I am not him oppure dell’evasione dal proprio sé.

Una macchina da presa fissa, spesso lontana dai personaggi come se non volesse entrare in alcun impatto empatico con essi. Luoghi austeri, spogli di qualsiasi inutile orpello. Una vita fallimentare quella di Nihat, scapolo che pela patate e lavora nella mensa di un ospedale nell’attesa, manifestatamente passiva, di una redenzione esistenziale impossibile da cogliere in quei lunghi e impassibili silenzi di cui è composto il film, quasi completamente privo di colonna sonora. Un mutismo che svela la mancanza, nella mente del protagonista, di un qualsiasi statuto interrogativo, fosse anche dichiaratamente nichilistico, sulla propria miserabile condizione; almeno fino all’incontro con la collega Ayşe, donna chiamata «puttana» e affascinata da Nihat perché sosia del marito carcerato: Necip.

La relazione che i due cominciano a intessere sembra esser priva di qualsiasi legame emozionale e si trasforma per l’uomo in un vero e proprio cortocircuito in cui in Nihat comincia ad albergare non l’anelito alla felicità, ma la segreta volontà di spodestare il proprio Io a favore di una nuova identità la cui (in)-consapevole sorgenza avviene con la morte per annegamento di Ayşe. Il legame incidentalmente spezzato con la donna rinnova il semplice fetore claustrofobico del lugubre quotidiano, quasi legato indissolubilmente al mero dato biologico, dell’esistenza di Nihat.

Se per la donna l’adulterio sembra una sorta di continuum lineare nella sovrapposizione visiva tra il marito e l’amante, per Nihat ci troviamo di fronte alla nascita di una specularità che si attua nella contemporanea assenza di Necip, nella presenza feticistica dei suoi oggetti: prima le scarpe e poi gli occhiali indossati dal protagonista e, infine, nella completa trasformazione fisica nel carcerato e nel riconoscimento da parte degli amici di quest’ultimo. Nihat si finge evaso, si finge altro da sé e, tuttavia, rimane identico a se stesso.

È così che il classico tema letterario, filosofico e cinematografico (Antonioni, Cronenberg, Lynch) del doppio s’innesta nel film di Pirselimoglu, bravo comunque nel riproporlo continuamente con molteplici sfaccettature e con un pathos che in almeno tre punti tocca un livello di coinvolgimento molto alto, nonostante la lunghezza non indifferente e lo scorrimento lento della pellicola. Ottima anche la prova del protagonista, l’attore Ercan Kesal.

Grazie all’aiuto di un amico di Necip, egli si trasferisce in un’altra città continuando nel suo processo d’identificazione e riattivandolo nella ricerca di una sosia di Ayşe: non solo dunque sosia come copia, ma sosia come copia della coppia. La specularità, nella sua progressione lineare, è dunque follemente trasformativa e priva di qualsiasi elaborazione del lutto. Il tentativo disperato di Nihat è quello di una delirante coazione a ripetere in cui l’altro viene assunto come istanza salvifica dal sé e il sé viene sconfessato a favore di un processo di progressiva (in)-differenziazione soggettiva.

Il destino dei due s’incrocia nell’atto finale del film con cui Nihat, nel suo completo processo di distruzione irreale della propria identità si sostituisce nella realtà a Necip, evaso a sua volta di prigione e giunto nella sua stessa città. Scoperto dalla polizia, Nihat non può far altro che accettare, di nuovo passivamente, la propria alterità, oramai divenuta ipseità, e tornare in carcere, ora costretto a fare i conti, contemporaneamente, con il Sé e con l’Altro in una perfetta quanto delirante centrifuga in cui identità e differenza non si scindono più. La completa e incosciente evasione dal sé è alla fine una nuova costrizione e accesso a una mortifera e autoinclusiva circolarità.

I Am not him, I’m me, I’m not me, I Am him.

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Autore

Lorenzo Cascelli

Ho conseguito la Laurea Magistrale in Estetica nel 2012 con una tesi su "The Tree of Life" di T. Malick e "Melancholia" di L. von Trier presso il dipartimento di Filosofia dell'università "La Sapienza" di Roma. Caporedattore prima di Arte e Libri e poi di Cinema presso Pensieri di Cartapesta, da Aprile 2014 sono direttore editoriale di Nucleo Artzine.

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