di Anton Cechov regia Filippo Gili con Ermanno De Biagi, Alessandro Federico, Paolo Giovannucci, Matteo Quinzi, Emanuela Rimoldi, Chiara Tomarelli scene Francesco Ghisu costumi Daria Calvelli un progetto di Uffici Teatrali 6 Aprile 2016 Teatro Argot Studio, Roma
Luce opaca, parquet scricchiolante e mobili antichi, dall’aspetto impolverato, messi lì quasi ad aspettare di essere spostati. Così si presenta la scena di Zio Vanja, sotto la regia di Filippo Gili. Opachi, scricchiolanti e impolverati sono i personaggi che si muovono sopra questo palco e dentro quest’opera.
Il piatto susseguirsi delle faccende quotidiane nella tenuta in cui vivono Elena, giovane ragazza, e Vanja, suo zio, e attorno alla quale ruotano altre vite come quelle del dottore Astrov e di Il’ja Il’è Telegin, possidente terriero caduto in disgrazia, viene smosso dall’arrivo del professor Serebrjakov, padre di Sonja, e di Elena, sua seconda affascinante moglie. Su questa piattaforma vediamo susseguirsi il lento trascorrere delle giornate di queste anime differenti nella vita ma tutti ugualmente ciechi per il modo di affrontarla. Parlano, pensano e agiscono come falene accecate da una fonte di luce, spaesate e senza una direzione ben precisa. Rimangono là a bruciare e sopportano “finché la vita finirà da sola “.
Come ogni opera cechoviana che si rispetti ogni personaggio ha la possibilità di sfuggire alla propria luce che lo tiene intrappolato e che lo acceca, un amore, una delusione, uno colpo di pistola: “Il sentimento cade in una fossa come il più stupido raggio di sole “, così rimanendo immobili, non riconoscendo la vera opportunità che gli si prospetta davanti o, nella maggior parte dei casi, per paura di abbandonare quella loro ormai comoda sensazione di vuoto e inconcludenza, decidono di rimanere intrappolati nella tana costruita dal loro cuore, la adornano, ci abitano, ci si rinchiudono dentro.
Gli attori che danno vita a queste anime rinchiuse sono affascinanti da guardare e da studiare, il loro modo di comunicare è fatto di parole sincere ma inconcludenti, di silenzi e di sguardi che sono grida e sono lame. Paolo Giovannucci rende Vanja un personaggio con mille sfaccettature, dal corpo loquace, imprevedibile nella sua prevedibilità; Ermanno Biagi è diretto, cupo e caldo; Emanuela Rimoldi candida e ingenua, espressiva; Matteo Quinzi riesce a trasformare ogni parola in poesia, facendo un lavoro di piccolezze delizioso; Chiara Tomarelli è elegante e interessante; Alessandro Federico è ironico e terreno, fuori dagli schemi. Il tessuto che li lega e incatena gli uni con gli altri è tenuto e cucito per bene da una sapiente mano registica che ha saputo giocare con la poesia di Cechov dandogli nuova vita.