Flavio Albanese: L'onomastico di Irina – riflessione

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Fino al 16 giugno nel progetto della Cultura in Periferia, Flavio Albanese incontra Cechov partendo dall’abnegazione dello stesso testo delle Tre Sorelle.

L’onomastico di Irina

Autore: scrittura collettiva degli attori

Con: Daniele Corsetti, Roberta Guccione, Vincenzo Lesci, Tommaso Messina, Alessandra Martino e Raffaella Paleari

Regia: Flavio Albanese

Dal 13 al 16 giugno 2013 – Centro Elsa Morante, Roma

Vai alla recensione dello spettacolo

Il pretesto è quello de Le tre sorelle cechoviane, ma il lavoro di Flavio Albanese si discosta completamente dalla rappresentazione classica per addentrarsi, attraverso un presente reale e non diegetico, nei movimenti che le parole vive, e non morte nel testo, producono in una condizione di presenza umana sempre mobile e disponibile ad un apertura che chiama letteralmente il pubblico in gioco, tanto da diventare parte integrante del processo creativo.

lo spettatore non è pubblico ma è l’ invitato all’onomastico di Irina. Le figure/personaggi vivono  lo spazio della terrazza della Fondazione Elsa Morante come un teatro disabitato, come un vera festa organizzata. L’aria che si respira è quella di sentirsi ospiti di una casa. Lo spazio comune che divide attori e spettatori è distrutto in frantumi, non solo nella messa in gioco del pubblico, ma soprattutto nel sottile rianimare la condizione della domanda come qualcosa che porta ad una prassi e non all’oblio della riflessione.

Tra amori, confessioni, desideri, turbe e frustrazioni, lo spettacolo nella sua formulazione registica ci chiede di immaginare di vivere il presente, ci domanda questioni sulla felicità, su come il senso nostalgico soffochi uno speranzoso futuro; ci domanda di Dio, pesa ogni parola: ogni credenza ha il suo peso specifico.

I rimandi a una critica all’attuale condizione dell’uomo come animale politico e post-moderno specchiano una propensione sfacciatamente pura e positiva ci  si chiede di ricominciare a desiderare di desiderare. L’essenza pura del desiderio è l’atto stesso che lo comporta e non l’oggetto da deliberare al ferino senso d’abbandono dell’ormai posseduto desiderio.

Le voci delle figure si intersecano con quelle degli attori per fondersi con quelle dell’uomo. Spoglio, nudo e sincero. Talmente disponibile da aprirsi curiosamente all’intervento dello spettatore nei pensieri che ruotano intorno alla vita. Le ascoltiamo parole del popolo che dice la sua, senza peli sulla lingua, ma con quella schiettezza tipica di un certo civilismo arrabbiato e giolittiano.

In questo dispiegarsi di forze centrifughe non c’è davvero tempo (e ci si chiede cosa muove il tempo) per la retorica, per l’intellettualismo tipico di certe riscritture drammaturgiche. È un ammissione totale del qui e ora, come si è, partendo dal bello che si possiede. “Noi stessi”, affermano le figure/personaggio.

Non è ai morti che si sussurra la vita ma ai vivi che impigriscono nei meandri del qualunquismo cultuale e culturale di luoghi s-cambiati ma mai di scambio. Alla fine è solo il cuore ad applaudire altri cuori battenti.

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Redazione

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