Accademia di Francia, Villa Medici, porta d’entrata dell’esposizione: indugio qualche secondo. Davanti ai miei occhi, improvvisamente, si mostra una donna in lontananza, meta finale di un corridoio ad arcate che vincola lo sguardo su di lei, bianca, bagnata, staticamente inespressiva, punto di fuga di un percorso visivo obbligato, violento. L’impatto mi inquieta, levo lo sguardo, supero l’indugio ed entro nella prima sala ma so che lei, da lontano, mi osserva.
Enormi gigantografie irrompono con colori brillanti, bianco, nero, un verde acceso quasi immaginario che si fonde con l’elemento ligneo ricorrente: rami scheletrici, tronchi d’albero, corna di animali selvatici; la natura si impone nella sua minacciosa eleganza quasi pittorica. Il tema imperante è proprio l’elemento naturale nelle sue diverse declinazioni: losche foreste che intrappolano lo sguardo nella complessità di intrecci arbustivi, animali selvatici decontestualizzati, corrotti, e infine l’uomo, animale corrotto per eccellenza. Costante in ogni scatto fotografico è il richiamo al destino inesorabile proprio dell’essere vivente: la morte. Animali squartati e appesi a testa in giù; il rosso del sangue è inquietante sullo sfondo bianco, puro. La morte dell’animale-cadavere, decontestualizzata, assume un valore diverso: impressiona, emoziona, perde la sua ovvietà di evento insito al ciclo naturale e si concretizza, si fredda nell’immobilità statica di uno scatto fotografico snaturalizzante.
É morte come perdita d’individualità, risposta dell’uomo alla propria e personale domanda esistenziale. Primi piani di donne-suore che hanno scelto di non essere più identità singole ma di essere rappresentanti di una fede collettiva: i loro caratteri personali perdono di singolarità individualizzante e si (con)-fondono come i contorni del velo monacale su sfondo nero.
Giungo a lei, la giovane donna immobile su sfondo bianco monocromatico e mi accorgo che non è la meta finale del percorso ma è parte del percorso stesso: non è sola, accanto a lei altre donne e uomini immobili, nudi-denudati da qualsiasi artificio celante. Semplicemente Uomini, nella loro naturalità più vera. Ecco come i particolari spesso si sfocano per il tentativo coatto di immobilizzare il movimento naturale dell’essere mediante l’atto fotografico. L’essere-esistere è vita, perenne divenire; fermare questo dinamismo implica un intervento meccanico esterno che ne contamina artificiosamente la condizione mobile d’origine. L’incontro-scontro tra techne e physis crea un cortocircuito visivo: i tratti si confondono, la foto si sfoca.
“La sfocatura nella fotografia deriva da qualcosa di statico” afferma lo stesso Eric Poitevin “é l’immobilità che contiene l’imprecisione”. Mediante l’atto fotografico l’Uomo si svela, nella sua naturalità più pura, nudo e bestiale, disinibito e libero da ogni contesto giudicante. Una naturalità fragile a tratti squallida e raccapricciante: semplicemente imperfetta.
Ad un tratto mi accorgo che qualcosa stride e si oppone al contesto. La donna in bianco cede il primato visivo all’immagine minacciosa di una donna diversamente perfetta, composta e impeccabile, ha scelto di nascondere la propria naturalità mediante l’atto estetico del vestimento-travestimento. Ha scelto di apparire e non di essere, celando la propria fragile imperfezione dietro un maglione a collo alto dozzinale. Obliando l’originaria naturalità, in opposizione al contesto dominante, incarna l’immagine artefatta dell’Uomo schiavo delle sovrastrutture socio-culturali del mondo civilizzato. E’ lei che, imperante e perentoria, osserva lo scenario macabro che le si spiana davanti: un susseguirsi di scatti fotografici in successione ascendente ritraggono sentieri impervi che si aprono faticosamente tra i boschi per giungere al cadavere sanguinante di un alce.
Costante è il monito dell’inevitabile presenza della morte nella condizione esistenziale del vivente in quanto tale. Eppure Poitevin sembra concludere questo percorso drammatico proponendo un finale lieto e rassicurante: la serena accettazione dell’ovvia e imprescindibile precarietà umana elimina la paura ancestrale dell’uomo di fronte alla morte; ci consola. Delicate immagini di teschi su sfondo bianco esorcizzano l’icona minacciosa del teschio-morte imperante nell’immaginario collettivo: più scatti fotografici rappresentano il medesimo oggetto da diverse angolazioni, un’analisi scientifica demistificante.
L’arte di Eric Poitevin si palesa nella forza evocativa delle sue foto che permettono, grazie anche all’ausilio di una scelta espositiva brillante, di suggerire al visitatore un percorso interpretativo intimamente e profondamente soggettivo mediante il quale conoscere-riconoscere se stesso.
ERIC POITEVIN FOTOGRAFIE
23 settembre 2011-15 gennaio 2012
Accademia di Francia a Roma, Villa Medici
foto Eric Poitevin, Sans titre, 2010C-print — 26.77 × 35.04 inches — edition of 5Courtesy Galerie Nelson Freeman, Paris