di John Logan traduzione Matteo Colombo regia, scene e costumi Francesco Frongia con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña luci di Nando Frigerio Produzione Teatro dell’Elfo10 Maggio, Teatro India, Roma
L’arte è un bene comune, l’arte dovrebbe essere popolare anche quando considerata borghese, l’arte deve parlare sia che si tratti di un minimalista “Quadrato Nero” o di una “Altalena” Rococò. L’arte si rivela piano piano, è un percorso, una serie di campiture poggiate, sovrapposte, cancellate, ricreate una dopo l’altra su una tela che deve essere narratrice e protagonista. Deve far vedere allo spettatore il suo processo di nascita: il tipo di legno che si è usato per il telaio, la grana della tela, se è stata gessata e con quante mani, quanto sia stata tirata, ed è solo l’inizio per poterle permettere poi di parlare.
In alcuni casi attraverso la parola si è facilitati nel narrare, nello spiegare – con frasi più o meno complesse – il concetto, il messaggio che vogliamo esprimere al nostro vicino, amico, conoscente, spettatore. La pittura deve fare tutto questo con un’immagine, un insieme di colori o di assenza di colori ed attraverso di essa coinvolgere tutti i sensi, trasmettendo tutti i significati di cui è caricata.
Ed è qui che entra in gioco la capacità dell’artista di dare all’opera un peso fisico ed emotivo percepibile, lo spettatore che si trova di fronte ad una creazione deve andarsene avendo provato qualcosa: non è importante che sia asfissia, fastidio, irrequietezza, benessere, amore, terrore.
Esattamente ciò a cui aspira più di ogni altra cosa Mark Rothko.
Come disse Paul Klee:
<< L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è >>.
Rosso di Jhon Logan con la regia di Francesco Frongia in scena dal 10 al 15 Maggio al Teatro India ci racconta Rothko, magistralmente interpretato da Ferdinando Bruni e del suo rapporto con il giovane studente – aspirante pittore d’Accademia che assume come aiutante – interpretato dall’altrettanto degno di plauso Alejandro Bruni Ocaña.
Il laboratorio di uno degli artisti più rilevanti ed influenti dell’espressionismo viene mostrato al pubblico dall’interno, nel momento in cui il pittore crea, immagina, visualizza, prima ancora di essere Mark Rothko l’artista bramato, l’artista quotato, l’artista dei comunicati stampa e delle dichiarazioni ufficiali. Un buco della serratura da cui spiare il processo creativo di una delle personalità più controverse del ‘900, in un’ambiente informale in cui i cambi di scena vengono fatti a vista con un elegantissimo e delicato controluce, coperto dalla scenografia che lo fa trapelare appena. Al primo cambio la sensazione di estrema vicinanza con quello che era il luogo di lavoro dell’artista è immediata: si è lì, all’interno del luogo di creazione e si sente lo scorrere del cavalletto sul telo poggiato a terra per non macchiare il pavimento, si sente il rumore dei telai che sbattono poggiando fra loro e l’odore del colore.
Si scaldano le luci, calibrate alla perfezione con un’attenzione quasi galleristica, mettendo in risalto quella che è stata una pièce teatrale ed artistica di altissimo livello. La cura dei due interpreti nello studiare, ricercare e mettere in atto, non solo le precise tecniche professionali del lavoro di Rothko, ma anche quelli che erano i procedimenti mentali per la sublimazione artistica delle sue opere, non poteva essere migliore. La sinergia fra i due interpreti non ha mai peccato né in eccesso né in difetto, il ritmo sempre sostenuto ed incalzante ha fatto si che l’ora e trenta di spettacolo si sia percepita come un pasto di cui si vuole il bis ed il tris. La regia perfettamente riuscita ha reso i dialoghi – complessi e numerosi – scorrevoli ed efficaci, tenendo lo spettatore incollato con occhi ed orecchi per tutta la durata della messa in scena.
Irriverente, duro, vero, sincero, fragile, timoroso, dubbioso pieno di demoni e paure, il “Rosso” che non vuole essere inghiottito dal “Nero” di Mark Rothko.