LA PUTTANA DI HARLEM
di Anthony Swerling regia Simone Luglio con Francesca Picozza, Kastriot Shehi traduzione Francesca Picozza aiuto regia Paola Tarantino scenografia Alecci & Di Paola costumi Giuliana Minaldi light designer Davide Rigodanza24 giugno 2012, h 22:30; 25 e 29 giugno ore 20:30
Villa Mercede, Roma
All’interno della splendida cornice romana – un palco allestito all’interno di Villa Mercede a San Lorenzo – ha debuttato lo spettacolo La puttana di Harlem, unico testo di Anthony Swerling ad essere stato tradotto in italino. Swerling è stato un autore di origini britanniche, trasferitosi in Svezia al fine di studiare il teatro nordico e in particolare l’opera di Strindberg, dalla quale è stato sicuramente molto influenzato. Si è dedicato alla drammaturgia scrivendo in svedese, lingua da lui considerata «diretta e flessibile, ricca ma non retorica».
La puttana di Harlem è quello che può considerarsi un one woman show: la protagonista, Maria Gustavsson, si reca in un teatro per sostenere un’audizione, al fine di ottenere una parte nel futuro allestimento dello spettacolo La puttana di Harlem, per l’appunto. Si trova ad interagire con un custode muto, che si limita a ricordarle che nel teatro è vietato fumare, con un telefono che squilla di tanto in tanto e con una giuria quanto mai silenziosa, composta da quattro fantocci gonfiabili ricoperti di tessuto nero e dalla stessa platea del pubblico pagante. La ragazza non sa assolutamente nulla dello spettacolo, ma è chiaramente determinata a fare qualunque cosa pur di ottenere un ruolo e sfuggire alla disoccupazione.
Nell’arco del lungo monologo, ci troviamo di fronte ad un’aspirante attrice che non esita a denudare il suo carattere; cerca di farsi buona pubblicità, di mostrarsi valida e interessante, racconta un passato di bambina prodigio e un presente di professionista qualificata ed esigente. Ma tutto quello che traspare è il ritratto di un’inconsapevole donna vulnerabile e priva di integrità: non riesce a intravedere i limiti che l’autostima dovrebbe imporle, e decide di non fermarsi davanti a nulla. Mette a nudo non solo le sue qualità – come fossero servizi accessori ad una merce in vendita – ma anche il suo corpo, si spoglia tentando di sedurre non solo chi è lì per giudicarla, ma finanche il custode, denotando così il disperato bisogno di essere scelta, approvata, desiderata.
La messinscena è semplice: è Francesca Picozza a riempire il palcoscenico, in preda a un continuo moto fisico e interiore. La pièce si configura con toni ora drammatici, ora snervanti, ora grotteschi, ed eleva all’ennesima potenza l’arrivismo sconsiderato degli artisti emergenti. Il finale del tutto inatteso lascia lo spettatore nella più ironica ambiguità, divisa tra un sentimento di sollievo e una strisciante e sotterranea diffidenza: il tarlo dell’incredulità.