Ana Arabia, di Amos Gitai, Israele-Francia 2013, 84′ Produzione Agav Films, Agav Hafakot, Hamon Hafakot Distribuzione Boudu Nelle sale cinematografiche e al Cinema Aquila dal 29 maggio
Un unico pianosequenza incornicia il girovagare sospeso di una reporter dallo sguardo visibilmente oscillante tra il perplesso e lo sbigottito, mentre attori professionisti le soffiano in faccia le battute scaturite dalla penna di Amos Gitai.
Lo squallido cortile attorno a cui sorgono le casupole di una famiglia allargata mista ebreo-palestinese vorrebbe essere l’oasi pacifica dell’attività quotidiana e del ricordo, ma sembra la cicatrice inquietante di un conflitto violento, non perfettamente rimarginato, sul punto di esplodere ancora.
Ana Arabia, la mitica sopravvissuta ad Auschwitz convertitasi all’Islam, scompare tra i proverbi sull’amore che tutto sconfigge e l’amarezza di fallimenti passati di cui non ci è dato sapere. La sofferenza individuale è seppellita dalla routine e da una serenità autoimposta che odora di posticcio. La sofferenza del popolo invaso e cacciato e discriminato punteggia la conversazione come innocuo rancore vittimista. E’ liberandosi dai bisogni superflui che si trova la pace, dicono.
Quando il sole scende i colori cambiano, la macchina da presa si solleva sul triste skyline di Giaffa per indugiare sul cielo azzurro. Così sfuma nella bruma crepuscolare il miraggio di convivenza, rivelandosi per quello che è: mera utopia caldeggiata da un lontano deus ex machina.