di Claudio Fava
regia Giuseppe Marini
con Claudio Casadio, Giovanni Anzaldo, Fabio Bussotti, Andrea Paolotti, Tito Vittori
e con Edoardo Frullini, Fiorenzo Lo Presti, Giorgia Palmucci, Alessandro Patregnani, Guglielmo Poggi
scene Alessandro Chiti
costumi Sabrina Chiocchio
luci Umile Vainieri
8 Novembre 2018, Teatro Vittoria, Roma
Argentina ‘78: così viene più comunemente ricordato il campionato mondiale di calcio di trentotto anni fa, giocato proprio in terra argentina, in un’atmosfera generale cupa e tesa, dal sapore fortemente nazionalistico a causa dell’oppressivo regime militare che guidava il paese. Risalgono proprio a quell’anno gli eventi raccontati in Mar del Plata: una storia cruda, vera, legata allo sport e, purtroppo, anche alla politica.
Non è difficile che interessi politici e sportivi collimino quando di mezzo ci sono i mondiali, ma il calcio, per una volta, non è lo sport che ha fatto la differenza; anzi, il campionato mondiale ha soltanto contribuito a spostare l’attenzione dalla sanguinosa dittatura del generale Videla e dallo straordinario numero di desaparecidos in costante aumento. Infatti è proprio con una “scomparsa” che si apre lo spettacolo: Diego, 17 anni, uno dei titolari del La Plata Rugby Club, è svanito da giorni senza lasciare tracce. Ne parlano i compagni di squadra – Edoardo Frullini, Fiorenzo Lo Presti, Andrea Paolotti, Alessandro Patregnani, Guglielmo Poggi – nello spogliatoio del campo.
Lo spettacolo è ambientato quasi interamente all’interno dello spogliatoio, costituito da una serie di armadietti scuri, attaccati l’uno all’altro, che ricoprono sui tre lati il grande palco del Teatro Vittoria e, grazie ad un soppalco, arrivano a doppia schiera verticale fin quasi al soffitto. Quei pochi metri di spazio tra l’imponente scenografia e la sommità del teatro sono occupati da una finta vetrata, che filtra dei sapienti giochi di luce, che spesso vanno a ricreare una naturale luce lunare, inasprendo così un clima già parecchio tetro e opprimente. L’aria che si respira ha infatti sin da subito l’odore di tragedia. Diego è stato ritrovato, morto, lungo il fiume.
Il La Plata individua subito i responsabili di quell’assassinio negli uomini guidati dal capitano Montonero, freddo servo dello stato, interpretato con ruvida fermezza da Claudio Casadio, che incarna un personaggio solido e violento, pur lasciando trapelare una certa ambiguità dei modi. Pur non essendo dichiaratamente palesato nel testo, ci sono tuttavia, in diverse scene, richiami ad una latente omosessualità del personaggio, che Montonero reprime con maggiori spargimenti di sangue, allontanandosi sempre più da una dimensione umana, a cui fa da contraltare l’allenatore della squadra, lo zoppo Pereira –Fabio Bussotti –, troppo orgoglioso per utilizzare un bastone, troppo debole per reagire al potere.
Pereira è dunque in balìa degli eventi, lasciandosi dominare dagli alti e i bassi della vita; un uomo che possiede la saggezza derivata dall’età e l’inevitabile disillusa consapevolezza di essere nient’altro che pedine manovrate dall’alto. Eppure si lascia contagiare dalla passione dei suoi ragazzi per la palla ovale, da quei giovani che lottano e amano perché “nel rugby, come nella vita, contano il fisico, il cuore, l’intelligenza e la voglia di resistere, uniti, lottando”. Ed è proprio uniti, lottando, e vincendo sul campo che il La Plata Rugby Club inizia a farsi sentire, a partire da un silenzio: un minuto di silenzio dedicato al compagno di squadra scomparso, a una vita troppo precocemente spezzata per un’ideologia, a uno come dieci, cento, mille che faranno la stessa fine.
Ma un minuto non basta. Diventano due, tre, dieci. Dieci minuti di silenzio prima del fischio d’inizio fanno più rumore degli spari nelle lande dell’entroterra argentino, e un regime militare che si rispetti non può tacere di fronte al silenzio. Ha inizio così una lenta, inesorabile, decimazione di quella sfrontata squadra di rugby che, a tutti i costi, è voluta uscire fuori dal coro: desaparecidos, senza più corpo, parola, ricordo. La situazione argentina non era poi tanto lontana da quella siciliana degli stessi anni. Il richiamo tra Catania e Buenos Aires è forte e dichiarato dallo stesso Fava, che afferma: “Perché Videla e Santapaola si rassomigliano, e si rassomigliano anche le loro vittime”. Giuseppe Marini, alla regia, non si scosta dal volere dell’autore, anzi rincara la dose permettendo agli attori di lasciarsi andare a “vezzi di sicilianità”. Il suo rapporto col testo è strettissimo, a tal punto da squarciare in più momenti la quarta parete laddove l’impellenza di un contatto diretto con il pubblico si presenti predominante rispetto alla veridicità della messinscena. Tale esigenza registica si è manifestata perlopiù attraverso le parole del vero protagonista di questa storia, Raoul, l’unico dei giocatori in grado di raccontarla.
Ad interpretare questo difficile ruolo è stato il giovane Giovanni Anzaldo, che ha abilmente seguito la linea drammatica del testo con sobrietà e freschezza, dimostrandosi degno titolare della squadra. Storie come queste sono sempre crudeli e difficili da digerire, ma meritano di essere raccontate.
Noi dobbiamo solo andare ad ascoltarle.