Foto: Luca Gandolfi
Artista: Glen Hansard
Dove: Auditorium Parco della Musica, Roma
Quando: 21 Febbraio 2013
Un grande show quello di Glen Hansard, tenutosi lo scorso 21 Febbraio nella sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, la splendida struttura architettonica progettata da Renzo Piano. Ex voce e chitarra dei The Frames, e membro – insieme a Markéta Irglová – del duo The Swell Season (vincitore nel 2006, con il film Once, del premio Oscar per la miglior canzone: Falling slowly), Hansard ha pubblicato nel 2012 il suo primo disco da solista, Rhythm and Repose, chicca del pop d’autore contemporaneo.
Ad aprire il concerto è la deliziosa Lisa Hannigan, nota per la sua collaborazione con il cantautore irlandese Damien Rice, e ormai avviata dal 2007 verso una carriera da solista che ha finora dato alla luce due album di alta qualità, Sea sew (2008) e Passenger (2011). La vocalità della Hannigan, soffice, nitida eppure appena percettibile in virtù del suo inconfondibile timbro quasi del tutto privo di potenza, introduce una serata che si preannuncia sin dalle prime battute foriera di emozioni intense, attenuate lievemente dalla delicatezza delle sonorità, sullo sfondo evanescente di un’atmosfera energica e raccolta al contempo.
Nelle stesse vibrazioni prende forma l’esperienza artistica di Glen Hansard. Continuamente oscillante tra la mitezza seducente di una vena poetica perlopiù malinconica, ed una soggiacente inquietudine che compare spesso in «eruzioni» di energia e grida disperate per poi tornare subito silenziosa e invisibile, l’ex busker di Grafton Street incentra da anni la sua produzione su questo irresistibile mix di rabbia e dolcezza, di ansia e di quiete, sintetizzato brillantemente dal titolo del suo ultimo lavoro: «ritmo e riposo», per l’appunto.
«Il cielo d’Irlanda è una donna che cambia spesso d’umore», recita un bellissimo pezzo della Mannoia. E come la terra da cui proviene, della cui tradizione musicale è uno dei massimi interpreti pop contemporanei, la musica di Glen Hansard colpisce per la mutevolezza delle tonalità emotive, per l’inafferrabilità della sua forma. La liricità tenue e dolcemente inquieta dell’intimismo cantautorale più classico, convive qui con una verve rock che richiama le suggestioni tipicamente british degli ultimi vent’anni; il tutto, sapientemente arricchito dalla lezione imperdibile della canzone folk americana (al grande maestro della quale – Bob Dylan – Hansard dedica un tributo prezioso eseguendo una cover di When I paint my masterpiece) e dagli arrangiamenti sobri ed equilibrati di un’orchestra affiatata composta da 11 elementi (con tanto di ottoni e quartetto d’archi!): lo sfondo è ideale per ospitare la voce incredibilmente espressiva del cantante irlandese, componente eccezionale di questo tutto armonico che ammalia e sorprende canzone dopo canzone.
Solo per un breve tratto pare che l’atmosfera perda d’intensità, ma il rischio di annoiarsi è subito scongiurato. Al rientro sul palco, Hansard e i suoi regalano un bis unico, dall’impatto emotivo davvero strepitoso: privo di amplificazione, il complesso esegue alcuni brani sporgendosi sul ciglio del palcoscenico; all’inizio, Hansard è da solo con la chitarra e la sua voce, poi è accompagnato dal resto della band. Le grida del cantante, espressioni vivide di una sofferenza che assume misticamente i tratti della gioia, unita ai cori gospel degli altri musicisti, tendono il teatro in uno stato magico e sospeso di raccoglimento. Il pubblico, ormai affrancatosi dalle «catene» dei posti assegnati e giunto in prossimità del palco in cerca di un contatto con l’evento, sembra fondersi con lo spettacolo cui tuttavia sta solo assistendo: il risultato è qualcosa che toglie il fiato.