Al Teatro dell’Orologio, sala Gassman, dal 22 gennaio al 10 febbraio, Gli ebrei sono matti della compagnia Teatro Forsennato.
Gli ebrei sono matti Di: Dario Aggioli Regia: Dario Aggioli Con: Dario Aggioli e Angelo Tantillo Costumi: Arianna Pioppi, Medea Labate Organizzazione: Carla Damen Aiuto regia: Eleonora LeoneDal 22 gennaio al 10 febbraio 2013 – Teatro dell’Orologio, sala Gassman, Roma
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Dedicato alla memoria di Ferruccio Di Cori, psichiatra e teorico di psicodramma emigrato negli Stati Uniti, dove poi è diventato consulente all’Actors Studio, Gli ebrei sono matti – già vincitore del Premio Giovani Realtà del Teatro 2011 e del Premio Festival Anteprima 89 2012 e destinatario di una menzione speciale al Premio Dante Cappelletti 2010 – è ispirato a fatti realmente accaduti nell’ospedale psichiatrico di Villa Turina Amione: per sfuggire ai campi di concentramento, il direttore della struttura accolse alcuni ebrei confondendoli tra i degenti. Ci ritroviamo dunque in una delle stanze dell’ospedale, condivisa da un matto vero filofascista e da un ebreo finto matto in fuga dai fascisti.
A Ferruccio, il finto matto – ribattezzato Angelo per farne perdere le tracce – viene detto di imparare a comportarsi da pazzo imitando quello vero. Vuoi la forzata e prolungata vicinanza, vuoi l’insopprimibile necessità di comunicare propria degli esseri umani, ad Angelo-Ferruccio non riesce di limitarsi a recitare una parte e cerca di instaurare un dialogo con Enrico, rievocando la sua vicenda. Non manca un elemento di interazione col pubblico, il quale viene ingegnosamente inserito nelle fantasie del matto vero e ignorato dal finto matto – facendoci, sia solo per un attimo, dubitare su chi sia il vero pazzo lì dentro -. Un gioco che avrebbe tutte le potenzialità per spingersi ancora più in là.
Pochi, ma buoni. Tali sono gli elementi costitutivi dello spettacolo: l’interpretazione dei due attori – Dario Aggioli e Angelo Tantillo –, le maschere a mezzo volto e il loro utilizzo, l’ironia della situazione e i pensieri ossessivo-compulsivi del matto – quello vero -. Lo spettatore si trova dinanzi non a una storia, ma a un godibilissimo momento dilatato tra quelli che sono i due veri punti focali della vicenda: l’accoglienza di Ferruccio all’ospedale e la scomparsa di Enrico. Nonostante la materia, la risata regna sovrana, fino all’agrodolce finale, in cui a una perdita certa si affianca una probabile salvezza. Come se, in un momento storico di follia collettiva, l’unica possibilità di salvezza per i sani di mente non possa che consistere nel fingersi pazzi.