Premio postumo alla carriera e proiezione fuori-concorso al Festival di Roma rendono onore alla follia visionaria di Aleksej German. Hard to be god, con i suoi 15 anni di produzione, è il suo film più complesso, maestoso e purtroppo per il mondo del cinema, ultimo.
Hard to be a God, di Aleksej German, Russia 2013, 170′
Soggetto: tratto da Hard to Be a God di Arkady e Boris Strugatsky.
Sceneggiatura: Aleksey German, Svetlana Karmalita
Produzione: Viktor Izvekov
Cast: Leonid Yarmolnik (Don Rumata), Dmitri Vladimirov,Laura Pitskhelauri, Aleksandr Ilyin (Arata), Yuri Tsurilo (Don Pampa), Yevgeni Gerchakov (Budakh),Aleksandr Chutko (Don Reba)
Aleksej German può non avere la fama di altri illustri colleghi russi che hanno segnato la storia del cinema. Eppure nel suo ultimo lavoro postumo i punti di contatto con altri grandi autori sono molteplici. A partire dal romanzo omonimo da cui è tratto Hard to be a god (degli stessi autori di quel Pic-nic sul ciglio della strada rielaborato e fagocitato da Tarkovskij in Stalker) e proseguendo attraverso una riscrittura strettamente personale della storia che non lesina di usare il plot di partenza solo in favore di una visione più ampia e personale del narrato.
Don Rumata è uno scienziato inviato su Arkanar, pianeta uguale al nostro, anche se fermo a un’epoca medievale, con la missione di guardare l’evoluzione di questa specie umana senza interferire. Compito che sta stretto al nostro che così decide d’imbarcarsi nella salvaguardia delle poche persone che sembrano elevarsi dalla bassezza popolare in modo da dare una speranza alle future civiltà. Le similitudini col romanzo finiscono qui. Se non per pochi accenni iniziali ogni dinamica narrativa del romanzo viene poi bistrattata, quando non violentemente piegata alla visione angosciosa e surreale del regista russo.
German non narra la storia convenzionalmente, non gli interessa farlo. Irrompe nello scenario violentando continuamente la quarta parete. Lunghi pianisequenza in steady-cam esplorano l’ambiente dipingendo a pie sospinto un’umanità bestiale da un animo fanciullesco nel senso più materiale e meno aulico del termine. Lo spettatore diventa l’alieno stesso che insieme all’occhio filmico esplora un pianeta dove l’apocalisse sembra iniziata e mai finita. Sguardi in camera, sovrapposizioni, continue interruzioni della scena attraverso la descrizione di ambienti tanto familiari quanto distanti (un’ operazione se vogliamo vicina a Wild Blue Yonder di Werner Herzog).
Un viaggio metafisico all’interno di scenari disgustosi ritratti con maestria da un autore che, letteralmente, fa del sudiciume un punto saldo dell’intera opera. Muoversi all’interno di Arkanar significa viaggiare dentro un quadro di Bosch dove l’eterna confusione visiva satura i sensi spogliando la storia di ogni orpello e caricandola, con il solo ausilio immaginifico, di un carico allegorico ingombrante, a volte difficile da cogliere, mai gratuito e/o forzato.
Un’allucinazione continua che non risparmia violenza destabilizzando continuamente lo spettatore. German è un Virgilio farsesco che ci immerge, faccia nel fango, tra le spire di un’umanità priva di ogni senso etico, civile o morale. Hard to be a God ha i tratti di un cinema di altri tempi nonostante veicoli qualcosa di profondamente universale e atemporale. Un’opera dai toni solenni, un kolossal in negativo che riprende il cinema e lo riporta ad una sua dimensione originaria, quasi inviolata tanto quanto gli sguardi persi e immacolati dei personaggi del film che a volte sembrano guardare la camera, o noi spettatori, con curiosità e diffidenza.
A pagarne lo scotto una narrazione frammentata, di difficile raccordo, difficoltosa da seguire prima ancora che da capire. Eppure che lo si guardi come una metafora stalinista o un semplice ritratto delle bassezze dell’essere umano il film di German rimane una visione imprescindibile che se non sa riscrivere la nostra percezione del cinema di certo ci ricorda tutti i singoli motivi per cui la settima arte viene definita tale.